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VIRGIN STEELE – 35 anni di romanticismo barbarico!

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David De Feis e Edward Pursino
David DeFeis e Edward Pursino
Fra la seconda metà degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, la scena musicale dei sobborghi di New York si fa viva della presenza di nuove band hard rock ed heavy metal nate, in buona parte, fra le comunità dei figli e nipoti di immigrati sud-europei ed ispanici. Nomi come Manowar, Twisted Sister, Riot, Foreigner, i Fandango di Joe Lynn Turner ed altri ancora appartengono, chi più chi meno, a questa categoria. E vi appartengono sicuramente anche quei Virgin Steele creati nel 1981 dal chitarrista di origine francese Jack Starr, e poi guidati per tutta la carriera dal carismatico e spiritato cantante e tastierista David DeFeis (dalle radici italiane e francesi), una band capace di contribuire a scrivere il manuale dell’heavy metal epico e di quello sinfonico, per alcuni dei picchi più alti raggiunti dal genere

Starr, O'Reilly, DeFeis, Ayvazian
Starr, O’Reilly, DeFeis, Ayvazian
La formazione originale dei Virgin Steele, oltre che da Starr (chitarra) e DeFeis (voce e tastiere) è composta dal batterista Joey Ayvazian e dal bassista Joe O’Reilly. Come molte band americane dell’epoca, il quartetto cattura dapprima l’attenzione del solito Mike Varney, che pubblica la loro Children Of The Storm sulla raccolta U.S. Metal Volume II. La spettacolare qualità del brano dimostra già come i Virgin Steele siano pronti al debutto discografico.

VIRGIN STEELE (1982)
Virgin Steele IL’album di esordio esce autoprodotto nel 1982, per essere poi distribuito in Europa l’anno dopo da Music For Nations. Il disco è un valido lavoro di metallo urbano americano, molto vicino ai primi Riot e con influenze che vanno dai Led Zeppelin ai Grand Funk passando per i Judas Priest. Starr, con il suo spettacolare chitarrismo torrido e viscerale, è ancora il punto focale della band, mentre DeFeis, pur appartenendo già alla categoria delle ugole strepitose in un piccolo corpo, è ancora acerbo vocalmente e tende a strafare sugli acuti. L’album, nonostante un songwriting lontano dall’essere maturo e una produzione scarsa (di fatto è una raccolta di demo), si fa apprezzare per la rozza energia, per gli assoli spettacolari e la carica dei riff: American Girl, la sleazy Living In Sin e la power ballad Still In Love sono sicuramente fra le cose migliori. Oltre alle strumentali Minuet in G Minor e Lothlorien, in cui DeFeis inizia a mettere in campo le sue intenzioni sinfoniche e pianistiche, due pezzi in particolare cominciano però a mostrarci i Virgin Steele più epici e sontuosi: si tratta del brano autointitolato e, soprattutto, della già citata Children Of The Storm. Quest’ultima è una spettacolare cavalcata metallica venata di toni sinfonici, ed è il primo vero grande classico della band.
Fra le bonus track della ristampa in CD si segnala poi in particolare la progressiva The Lesson, in cui David si ritaglia uno spazio importante alle tastiere.
Virgin Steele è sicuramente uno di quei vinili che hanno lasciato il segno fra gli appassionati di culto della primordiale scena U.S. Metal (fra gli altri, Queensrÿche e Metallica, fra i primi fan del quartetto), ma, nonostante le rimostranze dei duri e puri che preferiscono questa prima, più chitarristica, incarnazione della band, il meglio dovrà sicuramente ancora venire.


GUARDIANS OF THE FLAME (1983)
Guardians of the FlameIl secondo album rappresenta una chiara evoluzione rispetto al debutto, in una direzione più vicina al power metal americano. L’opener Don’t Say Goodbye (Tonight) è un nuovo classico, una cavalcata di heavy metal melodico a stelle e strisce che si stampa subito in testa. Brani come la cupa Burn The Sun, la priestiana Life Of Crime e la veloce Metal City ci mostrano il lato più tagliente e duro della band, ma appare subito evidente una dicotomia fra pezzi come questi, che portano la firma del solo Starr, e quelli che invece che vedono DeFeis impegnato come autore o co-autore, canzoni che invece hanno un taglio più epico o melodico. Oltre al pezzo d’apertura nominato in precedenza, spiccano fra questi la titletrack (dal ritornello magniloquente) e, soprattutto, la possente The Redeemer, brano massiccio e sontuoso che ci riporta in maniera indubbia ai Rainbow del periodo Dio, rivisitati in chiave metallica e sferragliante. Indubbiamente il punto più alto dell’album, e uno dei più alti della carriera della band. Il disco (che si conclude con la bella ballata pianistica A Cry In The Night) viene, dopo pochi mesi, seguito da un EP (Wait For The Night) scritto quasi interamente da Starr, che rappresenterà il canto del cigno dei Virgin Steele originali. Starr vuole infatti insistere su un sound puramente metallico e chitarristico, mentre DeFeis cerca un evoluzione verso uno stile più complesso ed elegante e non tollera più le scelte compositive di quello che, fino a quel momento, era stato il leader del gruppo. La separazione è inevitabile, e O’Reilly e Ayvazian scelgono di abbandonare il fondatore della band per mettersi dalla parte del’ambizioso cantante dagli occhi spiritati. Per alcuni fan della prima ora, e per gli oltranzisti del metallo più puro, la separazione da Starr rappresenta la fine dei Virgin Steele, per tutti gli altri è il momento in cui il gruppo inizierà il percorso verso le sue vette più alte. Indubitabile, comunque la si pensi, che Guardians Of The Flame sia un gran bel disco.


NOBLE SAVAGE (1985)
NOBLE SavageNon senza qualche problema giudiziario relativo a una querelle sull’uso del nome con Starr, i Virgin Steele riescono a ripartire nel 1985. Alla chitarra c’è ora Edward Pursino, musicista delizioso dotato di uno stile più elegante e misurato del suo precedessore, ma comunque capace di concepire grandi riff ed assoli, nonché più disposto a mettersi in secondo piano dal punto di vista compositivo. Il devastante pezzo di apertura We Rule The Night è un classicissimo, con un DeFeis davvero magistrale dal punto di vista vocale: David, su questo album, ha ormai il pieno controllo della propria voce, ed è in grado di passare con facilità da ruggiti leoneschi a falsetti angelici (di cui tende ancora ad abusare). L’album svaria fra sontuosi pezzi epici (la title track, Thy Kingdom Come, una The Angel Of Light rubacchiata ad Alice Cooper), rocciosissimi pezzi heavy metal (Fight Tooth Nail, I’m On Fire) e tentativi di arena rock (Rock Me, Don’t Close Your Eyes) e,  pur non invecchiato benissimo, resta comunque un caposaldo assoluto del metal venato di epicità degli anni ’80, ponendo le basi fondamentali per il sound definitivo della band.

Virgin Steele Mk II
Virgin Steele Mk II
AGE OF CONSENT (1988)
VS AoCDopo tour importanti che sono costati alla band decisi investimenti (per pagare alcuni debiti, DeFeis e Pursino suonano e producono in semi-incognito diversi album della cosiddetta scena “metalxplotation”, per conto di band vere o finte quali Exorcist, Piledriver and Original Sin), i Virgin Steele si sentono finalmente pronti a fare il salto definitivo verso una fama maggiore: dedicano così diversi mesi a incidere il successore di Noble Savage, sicuri che la congiuntura sia quella giusta. Le cose, però, vanno nel peggiore dei modi: la casa discografica prima interferisce sulla scelta dei brani, mettendo quelli più commerciali nella facciata A del vinile, poi, per problemi finanziari, assicura solo una distribuzione minima e zero promozione al disco. Per i Virgin Steele sarà una botta considerevole, una crisi che metterà in discussione l’esistenza stessa della band. Per la ristampa di nove anni, dopo DeFeis stravolgerà la scaletta, scegliendo un ordine a lui più gradito e aggiungendo sei brani che scrolleranno dal disco la patina commerciale per enfatizzare la sua anima più epica e romantica. In entrambe le versioni, Age Of Consent resta comunque notevole, ma è sicuramente la riedizione ad essere più efficace e riuscita, ed è a questa che ci riferiremo. The Burning Of Rome è semplicemete uno dei brani più grandi della storia dell’heavy metal, una bordata epica incentrata su quello che diventerà uno dei temi più cari all’estetica romantica del cantante: Amore e Morte. Lion In The Winter, Let It Roar, Chains Of Fire e On The Wings Of The Night rafforzano l’anima metallica e sontuosa della band. Fra i brani aggiunti a posteriori spiccano l’intensissima power ballad Perfect Mansions (Mountains Of The Sun), anch’essa incentrata sul tema “amore e morte”, e una splendida rivisitazione di Desert Plains dei Judas Priest. I pezzi più commerciali tendono ad apparire fuori contesto nella versione rivista, ma la viziosa Seventeen e la ballad Tragedy sono sicuramente ottime composizioni nel loro genere.


LIFE AMONG THE RUINS (1993)
LATRCi vogliono ben cinque anni ai Virgin Steele per riprendersi dal disastro di Age Of Consent: nel frattempo DeFeis ha avuto modo di completare i propri studi classici, mentre dobbiamo prendere nota di un cambio al basso, con O’Reilly (che già non aveva suonato sul disco precedente, “coperto” da DeFeis e Pursino) rimpiazzato prima Teddy Cook e poi da Rob De Martino, entrambi più bravi del membro fondatore. Mentre la stragrande maggioranza dei fan si aspetta che il quartetto torni a sviluppare quei temi epici per cui si era conquistato il ruolo di adorata cult band, riallacciandosi allo stile di canzoni come The Burning Of Rome e Noble Savage, i Virgin Steele decidono di scontentare tutti e uscire con un album di puro hard rock di stampo blues, influenzato da Whitesnake, Aerosmith e compagnia. Una scelta doppiamente suicida, se pensiamo che, nel frattempo, è esploso il ciclone grunge, e questo genere non può più avere alcuna speranza di successo commerciale. La cosa veramente clamorosa, in tutto questo, è che il disco è assolutamente notevole: David è credibilissimo nel ruolo, affrontato con personalità e una voce stellare, di alter ego di Coverdale e Tyler, mentre il suo songwriting riesce ora ad affrontare questo tipo di brani senza risultare stereotipato; al tempo stesso Pursino ci regala delle gemme di assoli e riff massicci e pieni di groove, con la band che suona compatta e grintosa. Pezzi trascinanti e sensuali come Sex Religion Machine e I Dress In Black (Woman With No Shadow), assieme a ballad come Never Believed In Goodbye o Wildfire Woman contribuiscono alla riuscita di un album che, fosse uscito pochi anni prima, avrebbe conquistato (con un minimo di promozione adeguata) le classifiche di mezzo mondo. Chiaramente, però, Life Among The Ruins è anche un album che non può essere apprezzato dai fan dell’epic metal duro e puro, che non si dovranno comunque preoccupare: DeFeis sta già preparando la sua opera più ambiziosa, e c’è solo da aspettare.

Con De Martino
Con De Martino
THE MARRIAGE OF HEAVEN AND HELL PART I & II (1994-1995)
themarriage1Quando parte il riff sferragliante di I Will Come For You, seguito dalla voce calda e leonesca di DeFeis, tutti i dubbi sono immediatamente spazzati via: i Virgin Steele sono tornati a fare quello che ci si aspetta da loro. Uscita in due parti, The Marriage Of Heaven And Hell, è la vera e propria magnum opus della band, una sinfonia romantica in cui class ed epic metal si fondono all’insegna di un sound sontuoso, arioso, grintoso e magniloquente, figlio diretto dei brani più apprezzati della band. L’approccio sinfonico è dato dal ritornare di temi musicali, da improvvise aperture inattese e dalla visione d’insieme di un concept mitologico apparentemente vago (la storia proibita di due amanti che si reincarnano attraverso i secoli, perseguitati dalla furia delle divinità), che definisce però appieno l’essenza romantica dei Virgin Steele. Tutto funziona alla perfezione: la chitarra di Pursino è una gioia per le orecchie, David ruggisce e ammalia con la sua voce multiforme e la produzione rende finalmente giustizia al suono della band. Nel mezzo delle registrazioni della seconda parte del concept, i Virgin Steele riescono persino ad assorbire il colpo del cambio di batterista, con il membro fondatore Joey Ayvazian che viene rimpiazzato dal più metallico Frank Gilchriest. È davvero difficile trovare dei brani che si staglino rispetto al resto di un doppio album fantastico, ma il duo composto dalla complessa Prometheus The Fallen One (che deve qualcosa ad Achilles’ Last Stand dei Led Zeppelin) e dalla drammatica Emalaith (ancora una volta incentrata su Amore e Morte) riesce ad essere persino superiore al resto.


INVICTUS (1998)
invictusNonostante due ore e mezza di musica (e più, se pensiamo che The Burning Of Rome viene ora considerata il preludio dell’opera) DeFeis ritiene che la storia di Endyamon ed Emalaith non possa ancora ritenersi conclusa: ecco che quindi arrivare, con Invictus, il terzo capitolo della saga del Matrimonio di Paradiso e Inferno. Nei cinque anni dal ritorno della band, all’epoca di Life Among The Ruins, molte cose sono cambiate: mentre negli USA continua a farsi sentire l’impatto della scena grunge, in Europa è in corso una vera e propria rinascita dell’heavy metal classico nelle sue forme più maestose ed epiche, sostenuto da tutta una generazione di giovani appassionati. I Virgin Steele, che con il concept sono riusciti a costruirsi una nuova credibilità, sono pronti a conquistare un posto d’onore fra i ragazzini che impazziscono per Manowar e Blind Guardian, puntando al massimo sulla metallizzazione ed esasperazione dell’epicità del proprio stile: la band inietta nel proprio sound forti dosi dei suddetti Manowar (esperimento già tentato con successo nel secondo Marriage, con una Symphony Of Steele che richiamava Wheels Of Fire) e di power metal europeo. Persino lo stile vocale del cantante si avvicina parecchio a quello del suo connazionale Eric Adams, mentre Gilchriest ricorre ad un utilizzo massiccio della doppia cassa e la produzione si fa più distorta e violenta. Quello che si guadagna in compattezza e aggressività viene però perso in termini di ariosità e ricchezza del sound: Invictus sarà un disco che dividerà i fan, con molti dei vecchi delusi da un lavoro troppo monolitico, adorato però da molti defender oltranzisti e dalla nuova generazione di appassionati. Per DeFeis, comunque, la scommessa è sicuramente vinta, dato che Invictus è l’album più venduto della storia dei Virgin Steele. Musicalmente, l’album contiene molti momenti validi, seppure a volte soffocati all’interno di soluzioni e scelte forzate. Se la title track, di per sé esaltante, avrebbe sicuramente beneficiato di un cantato meno stressato, pezzi come Sword Of The Gods e Defiance (con il preludio Vow Of Honour) hanno sicuramente più di un perché. A mettere d’accordo tutti ci pensa, senza ombra di dubbio, l’epica conclusiva della lunga Veni, Vidi, Vici, brano capolavoro di devastante teatralità metallica che rappresenta il perfetto suggello del concept. Quello che è sicuro è che si può pensare quello che si vuole di Invictus, ma resta un fatto: con questo l’album sarà l’ultima volta che i Virgin Steele suoneranno come una band.

Gilchriest, De Feis, Pursino
Gilchriest, DeFeis, Pursino
HOUSE OF ATREUS ACT I & II (1999-2000)
AtreusCompletamente assorbito dal fuoco sacro della composizione, DeFeis si lancia immediatamente nella sua fatica successiva, un adattamento musicale dell’Orestea di Eschilo. L’obiettivo è di arrivare ad una rappresentazione teatrale (cosa che avverrà in Germania), ma anche di realizzare l’opera metal definitiva. Per avere il totale controllo artistico, per non essere vincolato dai limiti temporali degli studi di registrazione e forse anche per limitare i costi, il compositore decide di registrare tutto in casa propria. La scelta è abbastanza sciagurata: Gilchriest viene costretto a incidere le parti di batteria su un kit elettronico di bassa qualità, per un discutibile risultato sintetico; anche i riff di chitarrra di Pursino suonano ora digitali e freddi; mentre il bassista non c’è proprio, dato che De Martino se ne è andato, lasciando un vuoto che Edward e le tastiere non riescono a coprire. DeFeis ormai non ha più freni: se mai ci fosse ancora alcuna dubbio, qui si capisce che i Virgin Steele intesi come band non esistono più. Il processo compositivo è quasi completamente tastieristico, mentre chitarra ritmica e batteria sono ora per lo più un tappeto privo di groove che si limita ad accompagnare i brani, piuttosto che farne parte integrante. House Of Atreus esce in due parti (su tre CD) fra 1999 e 2000, per oltre due ore quaranta minuti di durata (e anche di più se aggiungiamo l’EP di intermezzo Magick Fire Music) infarcite di passaggi strumentali pianistici e parti semi-recitate. Un disastro senza capo nè coda? Tutt’altro: se si è disposti a passare sopra ai problemi di una produzione che stanca in fretta e se si ha la forza e la voglia di dedicarsi all’ascolto certamente non facile di un’opera che non si può non definire prolissa, The House Of Atreus si rivela un lavoro di una bellezza quasi disarmante. Quel respiro ampio  che mancava in Invictus torna a farla da padrone, le melodie hanno spesso dell’incredibile, DeFeis fa letteralmente ciò che vuole con la voce (interpretando alla perfezione sia i personaggi maschili che quelli femminili), Pursino regala altre delizie solistiche. Alla fine è difficile non restare folgorati dalla magia di pezzi come le dure Kingdom Of The FearlessWings Of Vengeance e Resurrection Day, o le sontuose Gate Of Kings (peraltro più bella nella versione acustica dell’EP), Moira e Child Of Desolation. Una nota particolare: quando emergono prepotemente alcuni temi musicali del concept precedente, viene svelata la sorpresa lasciata in serbo da DeFeis: la sua Orestea si inserisce nell’ambito della saga del Matrimonio, con Elettra a rappresentare una delle tante reincarnazioni di Emalaith… una scelta che, come immaginabile, dividerà le opinioni di chi parlerà di riciclaggio di idee (accuse rafforzate dalla riproposizione di brani incisi con Piledriver ed Exorcist, riadattati al concept) e di chi apprezzerà la bravura nel riproporre a sorpresa temi cari. House Of Atreus resta sicuramente un’opera controversa: a giudizio di chi scrive, bisogna davvero trovare la voglia di ascoltarla… ma, quando la si trova, si viene certamente ripagati!

HYMNS TO VICTORY/THE BOOK OF BURNING (2002)
VictoryburningIl prossimo passo nella carriera dei Virgin Steele non è un album di inediti, ma una doppia raccolta che esplora tutta la carriera della band in occasione del ventennale dal debutto. Hymns To Victory contiene soprattutto brani del periodo Pursino, con un’ottima scelta che include molti dei classici più famosi. Alcuni dei brani sono remixati o presentano nuove parti, ma non sempre il risultato è riuscito, come evidenziato dall’orribile doppia cassa sintetica in Crown Of Glory (Unscarred). Ci sono un paio di inediti, come l’acustica Mists Of Avalon e una Saturday Night che, col suo stile alla Kiss, stona completamente rispetto a tutto il resto (pur essendo, di per sè, un brano più che valido). Decisamente più interessante l’altra raccolta, incentrata su nuove versioni di brani dell’epoca Starr: all’epoca dell’uscita di The Book Of Burning DeFeis non era ancora riuscito a negoziare la ristampa dei primi due album (ci riuscirà poco dopo), e quindi questa era la prima occasione per ascoltare su CD grandi classici come Children Of The Storm, Don’t Say Goodbye (Tonight), The Redeemer, Guardians Of The Flame e A Cry In The Night (rifatta in una meravigliosa versione acustica). I rifacimenti sono rivisti alla luce delle più recenti scelte stilistiche (cosa che tende a togliere dinamismo ai brani) ma godono anche di un’interpretazione vocale ai massimi livelli di maturità ed espressività. Ci sono anche pezzi nuovi, scarti elaborati, e persino due nuovi brani a firma DeFeis / Starr, scritti nel 1997 in un tentativo di riavvicinamento fra i due (ma comunque suonati da Pursino come tutti gli altri di questa raccolta): spiccherebbe Hellfire Woman se non fosse per la solita, discutibile, batteria. Infine, una nota sulla formazione: da qualche anno si è unito alla band il giovane polistrumentista Joshua Block, generalmente impiegato dal vivo come bassista e in qualche sciagurato tour come secondo chitarrista, lasciando il ruolo scoperto; non ci è dato sapere, però, quanto effettivamente venga utilizzato in studio.

Pursino, Gilchriest, De Feis, Block
Pursino, Gilchriest, DeFeis, Block
VISIONS OF HEAVEN (2006)
VisionsDeFeis è sempre senza freni, ma ora comincia ad essere a corto anche di ispirazione. Quando esce Vision Of Heaven cadono in maniera decisa molte delle certezze che ancora circondavano i Virgin Steele. L’album, composto da undici lunghi(ssimi) brani finisce per risultare in fretta non solo difficile, ma semplicemente noioso. Buona parte dei brani si può riassumere come un tappeto ritmico di chitarra e doppia cassa su cui DeFeis canta e suona le tastiere, accompagnato da assoli suoi e di Pursino. Alcune melodie forti riescono a farsi valere, ma l’approccio sinfonico è molto più didascalico che in passato. Quando poi si riciclano del passato (vedi la strofa di Black Light On Black, identica a quella di Kingdom Of The Fearless) non c’è neanche più la giustificazione del concept unico a reggere. Se infine aggiungiamo che anche la voce comincia a mostrare segni di cedimento, con gli acuti in falsetto che iniziano ad apparire deboli e strozzati, ecco che il senso di tristezza comincia a prevalere. Non è tutto da buttare, sia chiaro: ci sono idee melodiche davvero meritevoli (un brano come God Above God riesce comunque ad avere del meraviglioso), e il compositore cerca di fare sì che il suo disco abbia un’identità propria nella discografia della band… ma, alla fine, prevale solo la noia. A complicarsi ulteriormente la vita, De Feis decide di mandare alla stampa un CD promozionale con un orribile mix provvisorio, cosa che contribuirà ad aumentare ulteriormente la quantità di stroncature: quando si dice “avere bisogno di un manager e un produttore che ti tengano a bada…”

THE BLACK LIGHT BACCANALIA (2010)
bacchanaliaIl nuovo disco è un altro lavoro prolisso e senza freni. I testi, continuano il discorso già intrapreso in Visions Of Heaven: un misto di mitologia e filosofia gnostica, ma sempre con un sano spirito heavy metal… e sono sicuramente la cosa migliore dell’album. Musicalmente siamo di fronte ad un disco decisamente più dinamico rispetto al precedente, e l’ascolto ne guadagna decisamente. In compenso crolla ulteriormente la performance vocale: DeFeis è sempre meraviglioso quando vuole e canta in maniera rilassata, ma i suoi acuti sono ormai spesso deboli ed irritanti; il cantante tende pure ad abusarne, esasperando anche quegli urletti e piccoli “ruggiti” che sono da tempo parte del suo stile, e che ora suonano più stucchevoli che mai. Il vecchio leone comincia ormai a suonare come uno stanco gattino lagnoso; una tendenza, questa, che si porterà anche dal vivo, dove distruggerà molti vecchi classici con dei falsetti davvero fastidiosi. E pensare che i concerti dei Virgin Steele erano sempre una grande esperienza! Difficile dire se siamo di fronte ad un passo avanti rispetto a Vision Of Heaven, ma resta la sensazione che con una batteria vera, uno studio di registrazione, e un produttore serio che tagli tutto ciò che è di troppo e dica a David come NON cantare, The Black Light Baccanalia avrebbe potuto essere un bel disco. Invece abbiamo una serie di brani dal gran potenziale – come la titletrack, By The Hammer Of Zeus (And The Wrecking Ball Of Thor) e la melodica Eternal Regret – espresso, però, in maniera maldestra e noiosa.

NOCTURNES OF HELLFIRE & DAMNATION (2015)
NocturnesPer il nuovo disco, DeFeis decide di non volere più far finta di avere bisogno di un batterista, e dice al povero Frank Gilchriest che userà una drum machine. Frank,  che già nell’ultimo periodo era molto sottoutilizzato (David trova più redditizio fare concerti acustici, durante i quali può massacrare i classici miagolando accompagnato da piano e chitarra), dice grazie e a non rivederci. Il nuovo album è fondamentalmente un riassunto degli ultimi anni della band: per qualche motivo, forse perché Pursino sembra piu coinvolto che in passato, il disco risulta piuttosto digeribile, nonostante un DeFeis spesso davvero irritante nel cantato. Restano però anche tutti i difetti dell’ultimo periodo, prolissità e produzione in primis. La bluesy Demolition Queen, quasi un ritorno a Life Among The Ruins, è una delle cose migliori del disco, così come l’opener Lucifer’s Hammer. Discutibili, invece, i due ripescaggi degli Exorcist, perché senza lo spirito becero e cazzone con cui i brani erano stati incise originariamenti diventano terribilmente noiosi. Siamo alla fine per ora, ma non dobbiamo preoccuparci: DeFeis ha già detto di avere altri tre album pronti. Qualcuno gli dica qualcosa!


APPENDICE: EXORCIST
NIGHTMARE THEATER (1986)

ExorcistCome spiegato precedentemente, problemi finanziari costrinsero negli anni ’80 DeFeis e Pursino ad accettare lavori in semi-incognito, per riuscire a pagare i debiti dei Virgin Steele. Il fenomeno della metalxplotation fu quello che vide la pubblicazione di album registrati a budget zero da band spesso fittizie per sfruttare le mode del momento. Gli Exorcist erano stati assemblati come band thrash metal, con DeFeis e Pursino a scrivere tutto il materiale e David stesso alla produzione. Al momento di andare in studio, però, la band si sfaldò, e i due furono costretti a registrare, in soli tre giorni, l’intero album con il batterista Mark Edwards. Il disco è un lavoro decisamente figo di validissimo thrash orrorifico, anche inquadrabile come proto-black metal: DeFeis canta come un incrocio fra Chronos e Lemmy e si cimenta in testi becerissimi di stampo satanista, mentre il chitarrista tira fuori riff serratissimi e assoli sporchissimi, con risultati magistrali. Pezzi come Black Mass, Possessed, Queen Of The Dead e Lucifer’s Lament sono dei classici minori del genere. Alcuni brani di questo album sono poi finiti, in forma più o meno riadattata, su diversi album della band madre, ma, in verità, l’esperimento è riuscito solo su The House Of Atreus. Nel complesso, un disco decisamente valido e speciale, anche se distante da quello che ci si aspetta da DeFeis e Pursino!


MASTODON@Fabrique, Milano, 10/12/2014

mastodon

Il Fabrique è un nuovo locale di Milano destinato ad accogliere eventi musicali e mondani di vario tipo. Ricavato da un ex impianto tessile, vanta un’acustica niente male e sconta la presenza di un paio di colonne portanti che, certamente, non aiutano la visuale. Sia come sia, è proprio il Fabrique ad ospitare la calata milanese dei Mastodon, accompagnati da Krokodil e Big Business. Sono proprio i Krokodil ad aprire la serata: formati da membri di Sikth e Gallows, i sei inglesi picchiano come disgraziati ripercorrendo un po’ la scia di sottovalutate formazioni hardcore connazionali degli anni ’00 – Earthtone9 (da cui mutuano pure certe aperture melodiche), Raging Speedhorn, Medulla Nocte. Compattissimi e poderosi, sono un gruppo da tenere d’occhio. I Big Business sono invece un duo che fa casino per dieci. Un bassista/cantante e un batterista, un groove inarrestabile e una presa immediata, come se i Melvins venissero centrifugati dai Lightning Bolt. Decisamente da tenere d’occhio! E infine, i Mastodon. Puntuali alle dieci e mezzo, i quattro di Atlanta attaccano subito con Thread Lightly, Once More ‘Round The Sun e Blasteroids: il suono è ottimo, la presenza scenica ruvida e hardcore. Le canzoni infatti si susseguono senza pause nè discorsi, giusto Troy Sanders prova ad interagire un minimo col pubblico. Possiamo notare una cosa: se Sanders, vocalmente, se la cava bene come sempre, Brent e Brann sono davvero migliorati. Finalmente l’alternanza vocale, dal vivo, funziona bene come su disco, e lo testimoniano ottime esecuzioni di brani come Oblivion, Divinations o Black Tongue. Gli estratti dall’ultimo album la fanno da padrone, ma è bello vedere come la scaletta nel suo insieme mostri un suono che si è evoluto rimanendo sempre coerente con sè stesso negli assunti di base. Acclamatissime Megalodon (con relativo pogo spaccaossa all’altezza dell’accelerazione centrale) e, ovviamente, Blood And Thunder col suo riff memorabile. Bello sentire il pubblico intonare “Hey ho, let’s fuckin’ go” durante Aunt Lisa, fantastica Ol’ Nessie con le sue atmosfere fra Neurosis e Lynyrd Skynyrd, e tanto di cappello per una mostruosa, intensissima Bladecatcher. Dopo un’ora e venti il concerto finisce e solo Brann Dailor si intrattiene un attimo a salutare e ringraziare. Un’ultima considerazione: il Fabrique era pieno a metà. Un mese prima i Machine Head hanno fatto appena ottocento spettatori. Gli Epica invece, nello stesso periodo, il tutto esaurito. E da giorni. Il metal che piace in Italia è quello epico/melodico/sinfonico. Tutto il resto si becca le briciole.

Un anno di Metal: 1988

Iron Maiden, Seventh Son of a Seventh SonNell’Aprile del 1988  un ragazzino appena quattordicenne entrò in un negozio di dischi e non curandosi degli scaffali  dove erano esposti i vinili si diresse sicuro all’espositore delle cassette. Poco meno di un anno prima un compagno di scuola lo aveva introdotto alle gioie dell’Heavy Metal: un paio di cassette TDK dove erano copiati Somewhere In Time degli Iron Maiden e Master of Puppets dei Metallica. Erano poi seguiti mesi di intense discussioni e ascolti religiosi, mesi nei quali non si era perso un numero di H/M, all’epoca la rivista specializzata più autorevole in Italia. Quel giorno aveva appena incassato la sua paghetta settimanale ed era determinato a spenderla tutta in un botto solo. Con trepidante attesa voltò le pagine dell’espositore fino a quando trovò l’oggetto dei suoi desideri: il nuovo album degli Iron Maiden, Seventh Son of a Seventh Son.

Metallica, ...And Justice for AllAgli occhi di quel ragazzino il panorama musicale metallaro del 1988 era straordinariamente eccitante. C’erano i Glamsters e i Thrashers sempre in lotta fra di loro, c’era l’Hard Rock di Europe e Bon Jovi che tutti disprezzavano ma che tutti conoscevano, c’erano i Metallica che mettevano d’accordo tutti e alla radio passavano Appetite for Destruction dei Guns N’ Roses e Hysteria dei Def Leppard, entrambi usciti l’anno prima ma esplosi quell’estate (in totale dieci settimane al numero 1 delle classifiche di Billboard) ed entrambi ormai “storia vecchia” per i metallari più attenti. Gli Europe quell’anno pubblicarono Out of this World e i Bon Jovi New Jersey, album sotto tono rispetto ai precedenti pluri-decorati The Final Countdown e Slippery When Wet ma pur sempre in grado di avvicinare all’Heavy Metal folle di nuovi fans. I Metallica uscirono invece con …And Justice for All e cominciarono la loro scalata alle classifiche internazionali col singolo One.

Helloween, Keeper of the Seven Keys Part IIPiù tardi quello stesso anno uscì Keeper Of The Seven Keys Part 2 degli Helloween. Comprandolo a scatola chiusa, solo perché gli piaceva la copertina, il me ragazzino di cui sopra scoprì un nuovo genere musicale: quello che sarebbe poi stato chiamato Power Metal. Di solito si fa risalire la data di nascita del genere all’uscita del primo capitolo della saga delle sette chiavi degli Helloween, ma fu il 1988 che diede il vero impulso grazie anche agli album di Rage (Perfect Man), Running Wild (Port Royal), Manowar (Kings of Metal) e Vicious Rumors (Digital Dictator). I Virgin Steele pubblicarono Age of Consent che però fu un fallimento commerciale. Tra le curiosità legate al Power Metal si segnalano l’esordio dei Blind Guardian (Battallions of Fear), The Daily Horror News dei Risk (una band non priva di senso dell’umorismo) e l’album Exciter degli Exciter. Questi ultimi furono tra i primi a suonare speed metal ed ebbero una influenza non da poco sul Thrash ma si evolsero poi in una direzione più melodica, tanto che nel 1988 il batterista Dan Beehler lasciò il microfono a un nuovo cantante e la band divenne per un breve periodo un quartetto. Fecero parlare di sé anche i Sanctuary con Refuge Denied più però per la presenza di Dave Mustaine come produttore che per  la qualità pur molto buona del disco.

Robert Plant, Now And ZenQuell’anno i Led Zeppelin pubblicarono non uno ma ben due album! Vabbè si fa per dire… ma mentre Jimmy Page cominciava la sua carriera solista con Outrider Robert Plant consolidava la sua posizione con Now and Zen, che avrà anche una produzione di plastica ma a me continua a piacere come quando lo ascoltai per la prima volta. Dopo tre anni gli AC/DC tornarono a pubblicare un vero album (Blow Up Your Video), gli Scorpions fecero uscire Savage Amusement (questo sì invecchiato malissimo) e Ozzy Osbourne con No Rest for the Wicked diede un degno successore a The Ultime Sin. David Lee Roth pubblicò Skyscraper, un lavoro più maturo e per certi versi più serio del precedente Eat ‘em and Smile di un paio d’anni prima, mentre i Van Halen dimostrarono di non avere ancora digerito la dipartita del cantante rispondendo ironicamente al titolo del suo primo disco con OU812. Sempre in ambito Hard Rock gli Hurricane pubblicarono Over the Edge che divenne il loro album più di successo. Negli Hurricane militavano il bassista Tony Cavazo e il chitarrista Robert Sarzo che sono i fratelli piccoli di Carlos Cavazo e Rudy Sarzo, il primo dei quali pubblicò quell’anno QR coi Quiet Riot mentre il secondo aveva ormai lasciato la band da tempo per unirsi ai Whitesnake.

Blue Oyster Cult, ImaginosDopo quasi otto anni vede la luce il progetto Imaginos, uscito a nome Blue Öyster Cult ma in realtà concepito e messo insieme da Albert Bouchard e Sandy Pearlman. Fu così che uno dei migliori album dell’anno, nonché a tutt’oggi l’ultimo prodotto davvero eccezionale dei Blue Öyster Cult, passò quasi inosservato. Anni dopo, quando finalmente lo ascoltai insieme al resto della discografia della band, Imaginos divenne uno dei miei album preferiti di sempre e non nascondo un certo disagio nel notare che sia stato un falimento commerciale proprio nel 1988, quando cioè io ragazzino ogni settimana mi spendevo la paghetta in musica. Se solo avessi comprato questo invece di…

LA GunsDi album brutti ne abbiamo comunque comprato tutti e non è il caso di stilare classifiche in negativo. Ma un flop memorabile merita forse di essere ricordato: Cold Lake dei Celtic Frost. Questa band è famosa per aver influenzato tutto il movimento Black Metal con album come To Mega Therion del 1985 e Into The Pandemonium del 1987 ma nel 1988 se ne uscì con un album Glam! Ovvio tentativo di sfruttare l’onda del successo commerciale del genere che a quel punto degli anni ottanta aveva raggiunto l’apice. Ma non si pensi che la qualità di tutte le uscite Glam fosse per questo mediocre: Long Cold Winter dei Cinderella e Open Up and Say… Ahh! dei Poison furono conferme importanti, Wings of Heaven dei Magnum e Reach for the Sky dei Ratt ennesime prove di gran gusto, e non mancarono un live memorabile (anche se pieno di overdubs) a cura dei Dokken e un debutto di fuoco a cura dei Winger. Per non dimenticare l’omonimo degli L.A. Guns che con i Guns N’ Roses divennero esponenti di punta di un nuovo sottogenere.

Yngwie J Malmsteen - OdysseyPer gli amanti della chitarra, specialmente gli assoli alla Ritchie Blackmore, uscirono due album memorabili: Stand in Line di Impellitteri e Odyssey di Yngwie Malmsteen, non a caso con alla voce Graham Bonnet il primo e Joe Lynn Turner il secondo (entrambi con un passato nei Rainbow di Ritchie Blackmore). L’esordio della Jeff Healey Band introdusse i metallari al blues ma l’album Heavy Metal per virtuosi nel 1988 fu il quasi interamente strumentale Go Off! dei Cacophony, dove Jason Becker e Marty Friedman pubblicarono una serie di assoli così potenti da sconfinare quasi nel Thrash. Lita Ford ottenne il suo definitivo successo solista con l’album Lita e le Vixen pubblicarono il loro album d’esordio, tanto per ricordare che il girl power era già ben presente e radicato nell’Heavy Metal degli anni ottanta. E mi preme di ricordare un altro fenomeno dell’epoca: il Christian Metal, che ebbe negli Stryper il gruppo di riferimento. Quell’anno pubblicarono In God We Trust, forse l’album più debole della loro carriera ma pur sempre quello che me li fece conoscere. E che dire della prima band Heavy Metal di colore? I Living Colour uscirono con Vivid e la nostra musica preferita non fu mai più la stessa!

Megadeth, SoFar So Good... So What?In campo strettamente Thrash fu un anno prolifico: Death Angel, Destruction, Overkill e Testament pubblicarono tutti ottimi nuovi album. I Megadeth pubblicarono So Far, So Good… So What? con una formazione rimaneggiata ma un tiro sempre al massimo (In My darkest Hour rimane fra i miei pezzi preferiti di sempre), gli Slayer regalarono ai fans un’altra perla (South of Heaven) mentre gli Anthrax uscirono invece con un album un po’ sotto tono (State of Euphoria). Ma la vera sorpresa furono i Voivod che se ne uscirono con quel capolavoro che ancora oggi è Dimension Hatröss. Coroner e Mekong Delta pubblicarono i loro rispettivi secondi album (Punishment for Decadence i primi e The Music of Erich Zann i secondi). Alcuni gruppi pubblicarono album fenomenali che però rimasero relativamente sconosciuti, fra questi Anacrusis (Suffering Hour), Blind Illusion (The Sane Asylum) e Deathrow (Deception Ignored). La scena Death Metal si consolidò proprio nel 1988 quando i Death pubblicano Leprosy, l’album che per molti rappresenta l’espressione più pura del genere, e fecero il loro esordio i Bolt Thrower (In Battle There Is No Law!) e i Carcass (Reek of Putrefaction). Per non dimenticare Pestilence, Sadus e Incubus anche loro tutti al primo album. Sempre in ambito estremo si segnala il secondo disco dei Napalm Death: From Enslavement to Obliteration.

Queensryche_-_Operation_Mindcrime_coverDopo la pubblicazione di una mia lettera su H/M cominciai a intrattenere alcune amicizie epostolari. Per i lettori sotto i trent’anni forse conviene spiegare che ci fu un tempo in cui se si volevano scambiare opinioni e formare amicizie con persone relativamente lontane si doveva prendere carta e penna e “scriversi” delle lettere. Ebbene una di queste amicizie mi consigliò caldamente di ascoltare i Queensrÿche, e mi dovette incalzare anche un paio di volte, ma alla fine mi decisi a comprare la cassetta di Operation: Mindcrime a scatola chiusa. Inutile dire che a tutt’oggi considero quell’album come il migliore uscito quell’anno e tra i miei preferiti di tutti i tempi, quindi grazie pen-pal ovunque tu sia oggi! Ricordo anche il secondo album dei Crimson Glory (Transcendence) e il primo album dei King’s X e soprattutto No Exit dei Fates Warning, primo lavoro con alla voce Ray Alder.

DeathSSE la scena Italiana non produsse nulla che meriti essere ricordato? Il mio primo contatto con la scena Italiana avvenne grazie a una cassettina che mi registrò un amico: da un lato The Story of Death SS e dall’altro In Death of Steve Sylvester. Musica che mi diede i brividi per settimane e che rimane forse per questo molto in alto fra le mie preferenze. Ma a proposito di brividi, nulla mi ha mai fatto tanta paura come Them di King Diamond. Quando lo ascoltai ero assolutamente impreparato a quei caratteristici cambi di timbro del cantante e la cosa mi fece tanta soggezione che mi ci vollero mesi per prendere in mano la cassetta per la seconda volta! E poi ci sarebbero altre decine di album da nominare: scoprii i Saxon con Destiny,  i Kingdon Come pubblicarono il loro primo album, i Pantera pubblicarono il primo album con Phil Anselmo… la lista è davvero troppo lunga.

Frank Zappa, Broadway The Hard WayLontano dal metal forse l’evento più importante dell’anno in campo musicale fu l’ultimo tour di Frank Zappa. Ovviamente non si poteva sapere in anticipo che sarebbe stato l’ultimo ma il gruppo di musicisti che lo accompagnava cominciò a litigare e le divergenze divennero così insanabili che gli ultimi concerti dovettero essere cancellati. Successivamente Frank compilò tre album live da registrazioni di quel periodo la prima delle quali, Broadway the Hard Way, uscì già nel 1988.

La lista che segue rappresenta uno spaccato di quanto di meglio uscito nel 1988. Li abbiamo messi in ordine alfabetico e  non ci illudiamo di essere riusciti ad includere tutto. Da parte mia ho voluto raccontare la mia limitata esperienza, il 1988 visto con gli occhi di un ragazzino appena quattordicenne che si affacciava sulla scena metal per la prima volta in vita sua. Guardando questa lista non posso fare a meno di stupirmi nel constatare quanti di questi album ascoltai “in diretta” quello stesso anno, senza internet senza MP3 e senza servizi di streaming ma con l’aiuto di stampa specializzata, fratelli maggiori di compagni di classe e tante ma proprio tante “cassette vuote”!

AC/DC — Blow Up Your Video
Blue Öyster Cult — Imaginos
Cinderella — Long Cold Winter
Coroner — Punishment for decadence
Danzig — Danzig I
Death — Leprosy
Death Angel — Frolic Through the Park
Deathrow — Deception Ignored
Fates Warning — No Exit
Helloween — Keeper of the Seven Keys part 2
Iron Maiden — Seventh Son of a Seventh Son
King Diamond — Them
King’s X — Out of the silent planet
L.A. Guns — LA Guns
Living Colour — Vivid
Malmsteen, Yngwie — Odyssey
Manowar — Kings of Metal
Megadeth — So far, So good, so what?
Metallica — …And Justice For All
Nuclear Assault — Survive
Overkill — Under the Influence
Poison — Open up and say… Ahh!
Queensrÿche — Operation: Mindcrime
Rage — Perfect Man
Riot — Thundersteel
Sieges Even — Life Cycle
Slayer — South of Heaven
Suicidal Tendencies — How will I laugh
Vicious Rumors — Digital Dictator
Voivod — Dimension Hatröss
Winger — Winger

P.S. A scanso di equivoci vorrei precisare che le immagini inserite in questo articolo rappresentano le cassette che comprai quell’anno. Con le sole eccezioni di Imaginos e Broadway The Hard Way, che ho inserito per l’immenso valore affettivo che attribuisco a entrambi.

COLLIBUS – The False Awakening (2014)

I Collibus sono inglesi, vengono da Manchester e propongono un Power-Progressive metal dalle tinte oscure a metà strada fre Iced Earth, Nevermore e Threshold. The False Awakening  è il loro debutto discografico anche se a dire il vero raccoglie matariale gia edito in un Ep e un disco usciti nel 2009. Hanno gia’ diverse frecce nel proprio arco visto che possono vantare un dichiarato apprezzamento da parte di Brian may, per le loro abilità strumentali, e anche per esser stati il primo gruppo Metal a suonare dal vivo nella  Camera Dei Comuni inglese. Musicalmente ci sanno fare ed hanno un punto di forza nella cantante Gemma Fox dal timbro bello potente e per fortuna lontana dalle sirene gothic-metal che tanto vanno di moda oggigiorno, potrebbe essere paragonata ad una sorta di versione più metal di lana lane. I brani piu corti si fanno apprezzare per i cori e per gli ottimi arrangiamenti mentre anche nei pezzi piu’ lunghi (Spite, ad esempio, raggiunge i nove minuti) l’attenzione e’ sempre rivolta alla melodia ben costruita piuttosto che allo sfoggio di tecnica. Se vogliamo trovare un difetto è nella durata eccessiva : in un ora e dieci minuti di musica il rischio di riempitivi è sempre dietro l’angolo. In definitiva una piacevolissima sorpresa, difficile dire se saranno delle future stelle nel genere ma per ora ci possiamo decisamente accontentare.

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CHE COSA NOI BEVIAMO? IL METALLO!

Nel 1999 Gli Atroci intonavano il loro inno “i guerrieri del metallo“, e qualcuno deve averli ascoltati con attenzione. Con molta attenzione.

Sembra infatti una moda, ma ultimamente tanti artisti dell’ambiente Metal [fino a sfociare nel Pop, passando ovviamente per il Rock] hanno pensato bene di rinforzare le proprie finanze mettendo il proprio nome su bevande alcoliche, in primis sul vino. C’è chi potrebbe vedere in tutto questo una crisi della musica, chi un modo per queste vecchie tigri di “tirare a campare”, chi invece si limita a bere divertito.

E voi, a quale gruppo appartenete?

Birra Vino EnergyDrink Vodka Olio Assenzio
AC/DC X X X
Amon Amarth X
Blind Guardian X
Doro X
Grateful Dead X
Grave Digger X
Iron Maiden X X
Kiss X X
Madonna X
Marilyn Manson X
Motörhead X X X
Nightwish X
Pink Floyd X
Police X
Rolling Stones X
Slayer X
Sting X X
Streisand X

E poi, come se non bastasse, ci sono altre gustose realtà: il vino Chianti Rock, il Marshall Fridge dove conservare le vostre birre, il grembiule degli Slayer [utilissimo per le grigliate al sangue] del sito Metal and Wine [già presente nella tabella sopra, è un’ottima fonte di ispirazione], la vodka Crystal Head patrocinata da Dan Aykroyd [magari non sarà strettamente legata al Metal, ma avete mai visto una bottiglia dall’aspetto più Metal di questa?], eccetera…

Crystal Head Vodka
Altro che Indiana Jones!

Purtroppo, spesso la vendita di queste meraviglie alcoliche è a tempo limitato, per cui se foste interessati a qualcosa non lasciate passare troppo tempo: le birre di Amon Amarth, Corrosion of Conformity, Municipal Waste, Pearl Jam, Pig Destroyer e Sepultura, ad esempio, sono oramai finite da tempo!

Ovviamente, la lista dei vini non si esaurisce alla tabella sopra-riportata. Ma questo vuole essere solo un piccolo aperitivo, tanto per gradire.

Chi assaggia?

SPIRITUAL BEGGARS – 20 anni di album in studio

Spiritual Beggars

Gli Spiritual Beggars nascono ad Halmstad nel 1993 come valvola di sfogo del chitarrista Michael Amott (Carnage, Carcass, Arch Enemy), desideroso di mettere temporaneamente da parte il death metal per concentrarsi su un rock duro figlio di band come Mountain, Black Sabbath e Deep Purple.
Pur con molte pause, dovute al successo delle altre band del chitarrista anglo-svedese, i Beggars sono arrivati al 2014 mettendo in fila otto album in studio, fra hard rock, psichedelia pesante e stoner. Nel ventesimo anniversario dall’uscita del primo lavoro, ci piace l’idea di ripercorrerne le gesta!

La formazione originale
La formazione originale

Spiritual Beggars (1994)
“Alcohol becomes my saviour”
Il disco di debutto vede la band composta da Amott con il cantante/bassista Christian “Spice” Sjöstrand e il batterista Ludwig Witt.
Il songwriting della band è forse ancora acerbo, ma i riff pesanti, gli assoli a metà fra Schenker e Iommi, le improvvise escursioni jazzy e la voce calda e roca sono già elementi determinanti. Manca ancora l’hammond, che invece avrà un ruolo determinante in futuro, e questo fatto lascia oggi, a riascoltare brani come Yearly Dying o la bluesy Magnificent Obsession, una certa sensazione di vuoto. Poco importa: Michael suona che è una meraviglia, Spice incanta, e l’unione fra la chitarra, il basso cavernoso e una batteria à la Bill Ward funziona già alla grande.

Another Way To Shine (1996)
“Outside I see that snow has begun to fall / And it reminds me of you”
Con il secondo lavoro, i Beggars confermano di essere sulla strada giusta: lo stile è un violento muro di suono che fonde Black Sabbath, Mountain, Blue Cheer e primi Motörhead, graziato dalle capacità solistiche di un Amott stellare e da una voce espressiva e affascinante. I testi parlano di depressione alcolica, donne stronze e viaggi onirici, creando affreschi suggestivi. Brani come l’euforica Magic Spell, la sabbathiana Blind Mountain e la sinuosa titletrack concorrono a formare un signor disco e dimostrano il valore di un gruppo che sta per fare il salto di qualità definitivo. A questo punto, la band vanta un seguito soprattutto in Giappone, mentre viene inserita dalla critica, a torto o a ragione, nel grande calderone di una scena stoner rock in gran fermento.

Mantra III (1998)
“But I feel fine today ‘cause I’ve got friends inside my head…”
È con il terzo disco che la band centra il suo album capolavoro: Mantra III vede infatti il trio mettere tutto completamente a fuoco, con un grande songwriting ed esecuzioni spettacolari. Hammond e mellotron (per cortesia dell’ospite Per Wiberg) cominciano ad avere un ruolo determinante, mentre si insinuano influenze derivate da Deep Purple, Doors e dal desert rock (Inside Charmer). La doomy Euphoria è probabilmente il brano più grande scritto dalla band, la violenta Homage To The Betrayed scatena l’headbanging più selvaggio e la purpleiana Send Me A Smile contribuiscono a fare di Mantra III un caposaldo sottovalutato dell’hard rock moderno.

Ad Astra (2000)
“Bring me a dog or a loaded gun / I’m fed up with all the people around”
Il quarto album vede completare la mutazione della band nella sua prima fase. Per Wiberg (in seguito anche negli Opeth) si unisce ora ai Beggars in qualità di membro stabile, aggiungendo il suo organo infuocato à la Ken Hensley ad una miscela già esplosiva. Ma chi temeva un alleggerimento può stare tranquillo: il suono del neo-quartetto si fa ancora più massiccio e compatto. Forse anche troppo! La produzione è più metallica e satura che in passato, e toglie probabilmente troppo respiro all’ascolto. Il sound della band perde parte dell’anima lisergica per avvicinarsi ad un punto di fusione fra Black Sabbath, Deep Purple e Uriah Heep rielaborati in chiave più violenta e moderna. I brani sono comunque stellari, e pezzi come l’opener Left Brain Ambassador, una Angel Of Betrayal di chiara matrice heepesca e l’intensa ballad Mantra sono fra le cose migliori di un album di altissimo livello.

I Beggars sono ora ad un momento critico, quello del “o ora o mai più”. L’investimento c’è sicuramente, anche in termini di qualità, e ora la band è piuttosto conosciuta anche in Europa, ma il vero botto non avviene, e un pubblico più vasto tarda a vedersi. Qualcosa si guasta nei rapporti personali: nelle interviste del tour, Amott e Wiberg si dimostrano piuttosto freddi e scazzati nei confronti di Spice. È la fine di un’era.

Arriva JB
Arriva JB

On Fire (2002)
I am the clown in the mirror / the part of you you hate
Nel giro di due anni le cose sono cambiate parecchio per Michael Amott: i Beggars non sono riusciti ad imporsi, ma la sua band death metal, gli Arch Enemy, ha iniziato a conquistare pubblico con l’arrivo della bionda Angela Gossow. Sulla scia del successo di Wages Of Sin il chitarrista prova a rilanciare anche il suo gruppo hard rock: alla voce viene reclutato il semisconosciuto Janne “JB” Christoffersson, che ha da poco pubblicato il debutto doom dei suoi Grand Magus, mentre al basso, in prestito dai The Quill, arriva Roger Nilsson. La vociona cupa ed epica di JB è una sorpresa piacevolissima: diversa al punto giusto da quella del suo predecessore ma in grado comunque di garantire continuità stilistica. Amott prende in mano anche la scrittura dei testi, che si fanno ora più vari, ma anche meno affascinanti, rispetto a quelli di Spice. Dal punto di vista stilistico la band continua a proporre una rilettura moderna di Purple, Sabbath e Heep, forse in maniera più formale che in passato, ma comunque di alto livello. L’opener Street Fighting Saviours, l’orecchiabile Killing Time e la vibrante Dance Of The Dragon King testimoniano il valore di un ottimo lavoro.

Demons (2005)
Thought it’d last forever / How sad and naive
Anche On Fire non è riuscito ad imporre veramente i Beggars, oramai diventati a tutti gli effetti un side-project, ma la band esce comunque con un nuovo disco, forse anche solo per soddisfare le richieste del pubblico giapponese. Il quintetto si rinnova con l’arrivo di Sharlee D’Angelo (Mercyful Fate, Arch Enemy) al basso, cosa che restituisce un suono più d’impatto rispetto a quanto sentito con il più raffinato Nilsson. Lo stile della band si avvicina più che mai al proto-metal, spostando le coordinate temporali di riferimento verso la fine degli anni ’70: gli assoli si fanno meno acidi e più melodici, e il cantato ha una vena più epica. Demons è anche migliore del predecessore, anche se entrambi i dischi tendono ad essere meno longevi rispetto al materiale del periodo Spice. Fra i brani non possiamo non segnalare l’energica Throwing Your Life Away, la diretta One Man Army e l’intensa Through The Halls.

L'era di Apollo
L’era di Apollo

Return To Zero (2010)
The choice you made is yours to live / The bridge you burnt is yours to keep
Ci vogliono ben cinque anni prima che Amott, preso dal successo degli Arch Enemy e dalla reunion dei Carcass, riesca a trovare del tempo da dedicare alla sua creatura hard rock. Nel frattempo se ne è andato JB, assorbito dalla carriera dei Grand Magus e rimpiazzato da Apollo Papathanasio dei Firebird. Il nuovo cantante, tecnicamente bravissimo, sposta inevitabilmente le coordinate stilistiche della band: la sua voce acuta tende ad avvicinarla infatti al retro-hard rock di ultima generazione, finendo quasi per stravolgerne l’identità originaria. Dal punto di vista musicale, Return To Zero è un disco sempre più vicino all’heavy metal melodico: la cosa non sarebbe certamente un problema se non fosse che la vena compositiva di Amott, come già negli Arch Enemy, si è nel frattempo decisamente inaridita. Fra le cose migliori troviamo l’articolata The Chaos Of Rebirth (che incrocia i Judas Priest agli Scorpions del periodo Roth), la ruffiana We Are Free e una Spirit Of The Wind in cui la versatilità di Apollo viene sfruttata al meglio: l’album cresce con gli ascolti e alcune sequenze solistiche sono spettacolari ma, dopo cinque anni di attesa, è comunque un disco stanco e deludente.

Earth Blues (2013)
I see a black dawn rising / Can we turn the tide?
Quando ormai li davamo per persi, gli Spiritual Beggars si rimettono in carreggiata. Earth Blues non è forse un disco memorabile, ma le cose funzionano decisamente meglio che nel lavoro precedente: Apollo è meglio integrato e più a suo agio, e la band recupera qualcosa in termini di compattezza e messa a fuoco; il sound si rifà più viscerale, settantiano e diretto. Alla vecchia guardia dei fan mancheranno comunque il lirismo lisergico e lo spirito animale dell’epoca Spice, ma i Beggars di oggi dimostrano di essere ancora vivi: la sensuale Turn The Tide, la desertica Wise As A Serpent e la melodica Sweet Magic Pain stanno qui a ribadirlo!