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WHITESNAKE – Gli anni d’oro

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Se la maggior parte dei fan del rock duro conosce gli Whitesnake in qualità di aitanti semidei permanentati della scena hair metal, fautori di uno scintillante rock da arena accompagnato da videoclip con modelle-ballerine sgambate; per una fascia decisamente più ristretta di appassionati la band di David Coverdale nasce e muore come gruppo di hard blues britannico, suonato da musicisti (solo) apparentemente improbabili caratterizzati da baffoni e basettoni, cappelli imbarazzanti e magliette demenziali, e che sembravano appena usciti da un pub dell’Inghilterra del Nord.

Quelli delle origini sono, per chi scrive, i soli ed unici Whitesnake, e questo pezzo vi racconterà chi erano. Lo farà non limitandosi alle sole questioni discografiche ufficiali, ma andando anche, nella parte finale, ad analizzare l’aspetto live, quello in cui il Serpente Bianco dava davvero il meglio di sé. Se avrete voglia di seguirmi, eccoci qua!

Gli Whitesnake nascono nel momento in cui David Coverdale si decide a tornare a calcare i palchi del Regno Unito dopo i due validi (soprattutto il secondo) album solisti White Snake Northwinds. In questi dischi Coverdale svariava fra rock, rhythm & blues e funk/soul, non riuscendo sicuramente a coinvolgere appieno il nugolo di appassionati che lo ricordava ancora come cantante dei Deep Purple.
Come dice David, “non puoi fare rock’n’roll in salotto”, e per tornare a fare del rock serve la band adatta: il lavoro comincia qui!

WHITESNAKE Mk I & II – Febbraio – Luglio 1978

Foto dell’epoca Snakebite. In alto: Dowle, Moody, Coverdale, Murray. In basso: Solley, Marsden.
Autore a me ignoto.

La prima recluta della nuova band è la persona che già aveva affiancato il cantante nella lavorazione dei due album solisti: amico di gioventù ed eroe musicale di David, Micky Moody è un chitarrista di formazione rock-blues e esperto della slide guitar. Non un virtuoso e non esattamente carismatico sul palco (il suo look con i baffoni e improbabili cappelli si rivelerà un problema nel momento in cui queste cose inizieranno a contare), sarà comunque una delle pietre miliari e l’anima della band nel periodo d’oro. Certo di avere bisogno di qualcuno che fosse più in grado di catturare l’attenzione, e forse anche per evitare di doversi confrontare con un singolo ego, Coverdale decide immediatamente che gli Whitesnake dovranno avere un duo di sei-corde. Viene quindi reclutato l’ex UFO e Paice-Ashton-Lord Bernie Marsden, fantastico chitarrista dall’eccellente gusto melodico: anche lui forse non un virtuoso in senso tradizionale, ma comunque dotato di un gran tocco e autore degli assoli più memorabili del periodo. Bernie si porta dietro, dagli Hammer di Cozy Powell, il bassista Neil Murray: virtuoso, lui sì, musicista di formazione jazz-rock (vedi la sua esperienza coi Colosseum II) ma dotato anche del tiro giusto per trascinare le ritmiche di una band hard rock. Le linee groovy di Murray diventeranno uno degli elementi caratterizzanti del sound degli Whitesnake. Con Murray arriva David “Duck” Dowle, talentuoso batterista funk-rock che contribuirà in maniera positiva alla prima fase della band. Il primo tastierista, per le date live a supporto di Northwinds, è lo scozzese Brian Johnstone: durerà molto poco, sia per limiti tecnici che per problemi caratteriali. Al momento di entrare in studio viene infatti reclutato Pete Solley, discreto pianista rock’n’roll e tastierista dotato di valide idee e un approccio moderno ai sintetizzatori. Questa formazione, la Mark II, ci offrirà il primo frutto della produzione discografica del gruppo.

 

SNAKEBITE (1978)

Il primo atto in studio del Serpente Bianco è un EP di quattro pezzi che mette subito in chiaro quale sia la proposta della band: un hard rock britannico di stampo blues, che media la tradizione dei Deep Purple con quella dei Bad Company all’insegna di un sound più diretto ed accessibile. Il pezzo d’apertura Bloody Mary è un gran bel rock´n´roll, mentre la successiva Steal Away è una meraviglia incentrata sulla slide guitar: se la versione in studio  sembra avere il freno a mano tirato, dal vivo diventerà un pezzo incandescente! Ma sono soprattutto le due canzoni del lato B a fare immediatamente la storia. Ain’t No Love In The Heart Of The City è una cover di un pezzo di Bobby Bland, un brano lento che diventerà imprescindibile nel repertorio live degli Whitesnake. La loro versione ha, peraltro, un testo semplificato rispetto all’originale, per un motivo che oggi suona davvero particolare: quando Marsden la propone in studio, nessuno ha con sé una copia del disco di Bland, né il testo, e David deve quindi cantare ciò che Bernie ricorda. Internet arriverà decisamente più avanti! Il disco si conclude con Come On, solidissimo ed esaltante hard rock che sarà a lungo il pezzo di apertura dei concerti. Produce Martin Birch (Deep Purple, Black Sabbath, Iron Maiden) con un budget minimale: il risultato è buono ma i pezzi suoneranno molto meglio dal vivo!

 

Il video ufficiale di Come On. Con l’eccezione di Steal Away, tutti i pezzi dell’EP ebbero una loro versione video, con un semplice set finto-live.

Il Serpente Bianco si presenta in tour con questa formazione, e suona già convincente ed affiatato. La scaletta, oltre ai pezzi nuovi, vede il ripescaggio di quattro brani dei Deep Purple (l’imprescindibile MistreatedMight Just Take Your LifeLady Double Dealer Lady Luck), più un medley di WhitesnakeBreakdown, entrambe prese dal repertorio solista di Coverdale. Ain’t No Love In The Heart Of The CityMistreated diventano immediatamente i pezzi centrali del set: la seconda, in particolare, ci offrirà un grande assolo di Marsden, che eviterà ogni confronto con Blackmore per costruire una sua versione personale. Non è ancora la versione definitiva del pezzo (quella arriverà più avanti), ma non sfigura per nulla di fronte alle versioni di Purple e Rainbow. Solley sembra essere il punto debole del sestetto: nonostante alcune idee e scelte intriganti in fase di arrangiamento, gli manca la presenza sonora necessaria per fare la differenza. Coverdale se ne renderà conto durante le registrazioni del primo album: Pete non sembra essere particolarmente motivato, forse perché girano voci su una sostituzione prestigiosa… e quando quella sostituzione arriva, improvvisamente il Serpente Bianco fa più che mai clamore! Jon Lord subentra come tastierista a registrazioni quasi completate, re-incidendo tutte le parti del fuoriuscito. Gli Whitesnake sono ora la prima band ad annoverare due ex membri dei Deep Purple, candidandosi ad eredi della tradizione porpora.

WHITESNAKE Mk III – Agosto 1978 – Luglio 1979

Foto promozionale da Lovehunter.
Marsden, Coverdale, Moody, Murray, Lord, Dowle. Autore: Fin Costello.

 

TROUBLE (1978)

Il primo album degli Whitesnake esce nell’ottobre 1978, ancora una volta prodotto da Birch, e sorprende molti con un feeling bluesy più intimista rispetto a quanto atteso. Diversi fan, abituati a performance dal vivo super-energiche, restano delusi da un disco che non ha l’impatto e l’atteggiamento hard rock che ci si aspettava, magari anche a paragone delle contemporanee uscite (ricordiamo che era ancora accesa la caccia al titolo di “eredi dei Deep Purple”) di Rainbow e Gillan. Ma Trouble è davvero un gran disco, che inizia con una Take Me With You tirata e dai vaghi echi zeppeliniani (diventeranno molto più marcati nelle versioni dal vivo) e continua con pezzi come la maliziosa Love To Keep You Warm e la beffarda Lie Down. I testi di Coverdale sono pienamente inquadrati sui temi di quella malizia sensuale che gli attireranno sempre più critiche, ma anche più ammirazione, con il crescere del successo commerciale della band, ma tutto funziona alla perfezione. La cover di Day Tripper dei Beatles rilegge il brano in chiave funky, e lascia a Marsden lo spazio per un assolo di voice-box. Nighthawk (Vampire Blues)  mostra  l’anima più jazz rock del sestetto, mentre The Time Is Right For Love è il primo grande hard rock shuffle del repertorio del gruppo, ed uno dei migliori della loro discografia. Con la titletrack entriamo nell’olimpo dell’hard blues: un lento drammatico dove l’influenza dei Free di Paul Rodgers è forte, ma caratterizzato alla grande dalle belle armonie vocali e dall’intensità strumentale. Belgian Tom’s Hat Trick è uno strumentale con influenze blues e jazz-rock, dove l’organo di Lord ha la possibilità di splendere brevemente: dal vivo il pezzo diventerà una cavalcata esaltante che farà muovere la testa al ritmo delle fughe strumentali. Free Flight, cantata da Marsden, è un altro pezzo con influenze jazz-rock e, pur a suo modo trascinante, non è oggettivamente granché. Il disco si conclude con Don’t Mess With Me, un brano  tirato e pesante di hard blues in cui Coverdale può tirare il meglio del suo atteggiamento da macho, e sicuramente un modo eccellente di concludere un lavoro che, nel momento della sua uscita, non viene apprezzato come avrebbe potuto, ma che in futuro sarà stabilmente annoverato fra i classici della band.

 

Apparizione in playback al Top Of The Pops. Curiosa la mise à la Angus Young di Marsden

Gli Whitesnake vanno in tour con Lord, e la differenza è immediatamente evidente: il “peso” dell’hammond di Jon arricchisce i pezzi e la band ha decisamente una marcia in più. La scaletta si svecchia parzialmente del repertorio Purpleiano (solo Mistreated Might Just Take Your Life rimangono stabilmente in scaletta), e i nuovi brani fanno immediatamente un’ottima figura. In questo tour viene registrato Live At Hammersmith, originariamente pubblicato solo in Giappone, e in seguito incluso nella versione europea di Live… In The Heart Of The City. Ma avremo modo di parlarne più avanti! 

LOVEHUNTER (1979)

Non si può dire che la band non recepisca il messaggio, e il nuovo album Lovehunter dà ai fan esattamente ciò che chiedevano: un perfetto lavoro di hard rock di stampo blues, destinato a lasciare un segno importante nella storia del genere! Certo, riuscire a catturare in studio l’energia live della band resterà comunque una chimera irraggiungibile, ma Birch riesce comunque a fare un ottimo lavoro nel confezionare un disco solido e ben rifinito, che valorizza le doti della band nel comporre gioielli di rock duro accessibile. L’album si apre con Long Way From Home, un pezzo energico e radiofonico dalle azzeccate armonie, anche se la voce da macho di Coverdale spazza via ogni tentazione AOR: nonostante il potenziale, non riuscirà a conquistare le classifiche e non entrerà neanche nel repertorio live della band. Discorso praticamente opposto per la successiva Walking In The Shadow Of The Blues, che diventerà il brano-manifesto del gruppo: un’esaltante cavalcata hard-blues con un testo spettacolare che è una vera dichiarazione di intenti. Non uscirà come singolo, ma diventerà comunque uno dei brani più popolari. La cover di Help Me Thro’ The Day di Leon ci restituisce l’anima più intimista e romantica di Coverdale, ma le successive Medicine Man You ‘n’ Me ci riportano a del grande energico hard rock. Mean Business è un pezzo tirato che permette a Lord di splendere su un assolo spettacolare. L’accusa di non avere sfruttato appieno le capacità di Jon, relegandolo al ruolo di comprimario, è una delle più frequenti che vengono mosse agli Whitesnake… ma, anche in questo ruolo, Jon riesce a brillare negli arrangiamenti e nelle occasioni in cui gli viene lasciato spazio. Lovehunter, il brano, è un nuovo classico da antologia, stomp sinuoso ed esaltante incentrato sulla slide guitar di Moody. La veloce e cadenzata Outlaw lascia ancora spazio alla voce di Marsden, mentre Rock’n’Roll Women sembra quasi portarci ai tempi di Chuck Berry. Menzione speciale per il brano finale: We Wish You Well è una ballad pianistica scritta apposta come saluto ai fan da diffondere alla fine di ogni concerto. Quando le registrazioni sono complete, un altro cambio importante avviene all’interno della band: Ian Paice è alla ricerca di un impiego, Jon Lord (che è anche suo cognato) gli ha parlato molto bene del Serpente Bianco e l’ex Deep Purple, dopo avere provato per i Gillan, decide di proporsi a Coverdale, che non può non accettare. Al pur valido “Duck” Dowle viene quindi chiesto di lasciare. Coverdale vorrebbe fare reincidere le parti di batteria a Ian, come già successo con le tastiere di Lord su Trouble… ma il management non ci mette i soldi, e quindi Dowle riesce a mantenere un minimo di gloria sui solchi discografici di un album entrato nella storia. Quando viene annunciato il disco, la spettacolare copertina di Chris Achilléos fa scalpore, attirando sulla band le polemiche delle femministe. Ma Coverdale è ben determinato a continuare sulla sua strada!

 

Quello che doveva essere il video di Long Way From Home ha una storia davvero particolare: il regista aveva frainteso il titolo in Long Way From Rome e aveva preparato un set con colonne romane e grappoli d’uva. Quando la band si presentò, la tensione salì alle stelle, con la band che non capiva cose volesse rappresentare il regista, fino al chiarimento sull’equivoco del titolo. Come si può vedere: Coverdale è incazzatissimo, Marsden ride per tutto il tempo e Paice sembra non sapere cosa fare con le parti di Dowle. Probabilmente anche per questo motivo il video non fu utilizzato all’epoca, contribuendo, probabilmente, al flop del brano.

 

WHITESNAKE Mk IV – Luglio 1979 – Dicembre 1981

La formazione classica: Coverdale, Marsden, Murray, Paice, Moody. In basso: Lord.
Autore a me ignoto.

Con l’ingresso di Paicey si crea quella che è considerata la formazione classica per eccellenza degli Whitesnake. La presenza di tre ex Purple cattura l’attenzione dei fan, e accende sempre più la rivalità con i Rainbow di Ritchie Blackmore (più Roger Glover) e i Gillan di Ian Gillan. In particolare con i primi la situazione diventerà parecchio tesa, soprattutto quando Coverdale riterrà che, con la svolta commerciale di brani come All Night LongSince You Been Gone, l’Arcobaleno abbia effettuato uno sconfinamento nel campo musicale del Serpente Bianco.  Ma la band di David è comunque in ascesa, ha un ruolo da vice-headliner al festival di Reading, ed è sempre più avviata a conquistare il cuore dei rocker britannici. Per quanto Dowle fosse un buon batterista, Paice è un treno di energia e conduce la band verso la perfezione. Ad ascoltare le registrazioni, questo è un gruppo che si diverte a suonare, e la cosa fa sicuramente la differenza: vedere il serpente bianco in questo periodo doveva essere una goduria, fra tiro dei pezzi, groove, un cantante stellare e spazio a forme di espressioni personali (in questo periodo Jon inizierà a stuzzicare i vecchi fan infarcendo il suo assolo di riff purpleiani). La band ha fame, e a neanche due mesi dalla pubblicazione di Lovehunter, è già in studio per iniziare a lavorare sul suo successore.

READY AN’ WILLING (1980)
Le opinioni su quale sia il migliore album della band possono certamente variare, ma bisogna anche riconoscere che, oggettivamente parlando, Ready An’ Willing è un lavoro praticamente perfetto. Il disco si apre con uno dei classici più grandi, quella Fool For Your Loving che diventerà il  primo hit della band e uno dei momenti imprescindibili dell’esperienza live. Questa versione originale è semplicemente insuperata: l’intro di tastiere, il riff caldo, la voce imperiosa, il basso pulsante, le grandi armonie, la batteria groovy, il delizioso assolo di Marsden… un puzzle che si incastra alla perfezione in un gioiello di hard blues! Sweet Talker è trascinante e renderà al meglio dal vivo, mentre la titletrack è un capolavoro di hard rock funkeggiante con un ritornello caldo e sinuoso. Con Carry Your Load e Blindman  ritorniamo nell’ambito dei blues lenti. La prima mostra ancora una volta tutta l’influenza dei Free di Paul Rodgers; la seconda è, invece, un rifacimento di un brano già apparso nel primo solista di Coverdale: questa nuova versione è più scarna e rock, con una intro che, fino a questo momento, era appartenuta alle versioni live di Mistreated. Ain’t Gonna Cry No More è probabilmente la gemma del disco: un blues semiacustico dal crescendo spettacolare, su cui Coverdale può ribadire tutta la sua grandezza. Nel finale la band ha la possibilità di esprimere tutti i propri colori musicali con il blues beffardo di Love Man, con il boogie rock di Black And Blue e con la tirata She’s A Woman, dominata da un Lord in stato di grazia. Birch alla produzione compie ancora un lavoro magnifico, mentre David decide di evitare ogni polemica allestendo lui stesso una copertina molto scarna rielaborando una foto promozionale dell’epoca Lovehunter: sì, lo “Ian Paice” della copertina è in realtà David Dowle ridisegnato a mano dalla sapiente mano del cantante!

 

Il video ufficiale di Fool For Your Loving. La perfezione.

Il Serpente Bianco va subito in tour, e uno dei momenti principali è rappresentato dalla doppia data di concerti di giugno all’Hammersmith, che saranno registrati per Live… In The Heart Of The City. In questo tour debutta la versione definitiva di Mistreated, con una nuova drammatica intro di piano e chitarra che viene poi re-incorporata nella parte centrale. Nel finale del brano arriva anche (già dal tour precedente) una versione per voce e organo di Soldier Of Fortune, molto simile a quella degli ultimi concerti dei Deep Purple Mk IV.  Altro momento chiave del tour è la nuova partecipazione, questa volta da headliner, a Reading Rock, per un festival ormai completamente dominato dai grandi dell’hard rock e di una scena NWOBHM in piena esplosione: con i Gillan vice-headliner della prima giornata e con i Rainbow a capo del primo Monsters of Rock, la rivalità fra le tre band è ormai ai massimi livelli. Quello che però funziona molto bene a livello di successo con il pubblico britannico (l’album arriva al sesto posto delle classifiche), lo fa decisamente meno nel resto del mondo .La colpa è in buona parte del management di John Coletta e della sua Sunburst: come già ai tempi dei Deep Purple, Coletta si dimostra inadeguato, più interessato ad incassare soldi e sfruttare la band che a promuoverla e tutelarla adeguatamente. In casa propria la band riesce a conquistare il pubblico locale grazie al duro lavoro, ma all’estero è tutto più difficile: un male assemblato tour a supporto dei Jethro Tull porta finalmente gli Whitesnake negli USA di fronte all’audience sbagliata, cosa che non permette, ovviamente, di avere un reale ritorno dall’operazione. La cosa più importante è che l’arrivo del successo domestico non è ricompensato in termini economici: Coletta è un buco nero che assorbe tutto, lasciando le briciole alla band. Sul palco i musicisti si divertono ancora tantissimo (e continueranno a farlo fino alla fine), l’affiatamento è comunque sempre elevato, ma cominciano ad emergere le prime crepe nella soddisfazione generale dei musicisti. Pur in questa situazione, comunque la band non mostra alcun segno di cedimento artistico, e si permette di consegnare alla storia l’album dal vivo che li consacra in maniera definitiva.

Whitesnake @ Reading 1980.
Foto di Andrew King, Licenza CC-BY-SA

 

LIVE… IN THE HEART OF THE CITY (1980)

L’inevitabile consacrazione live arriva con un doppio album segnato da una copertina tanto finta quanto iconica. Per l’occasione si decide, anziché pubblicare un set integrale recente, di lasciare fuori diversi brani e di utilizzare il secondo disco per ristampare in Europa quel Live At Hammersmith che era uscito solo in Giappone. Il suono scintillante (cortesia del solito Martin Birch) e la qualità delle performance sono sicuramente di altissimo livello. I pezzi dell’epoca Dowle con Paice alla batteria guadagnano inevitabilmente in grinta e tiro, e l’album è sicuramente spettacolare e degno di essere annoverato fra i grandi live del decennio. Ma c’è un grande “ma”. Diciamolo senza volere ferire tutti quelli che hanno amato e amano tuttora questo live (sottoscritto incluso): i concerti degli Whitesnake del periodo sono comunque meglio di quello che possa trasparire dai solchi di questo doppio album. La scelta di lasciare fuori tutti i brani con le parti strumentali, l’assurdità di escludere la versione definitiva di Mistreated (per includere quella, pur valida, del tour di Trouble), il suono fin troppo rifinito (sì, ci furono delle sovraincisioni minori) impediscono di catturare appieno lo spirito live della band, la sua capacità di divertirsi, la sua energia. Il disco con Dowle andava sicuramente pubblicato in Europa, e ci dà l’opportunità di ascoltare Trouble Lie Down in versione ufficiale live, ma gli altri pezzi sono inferiori alle versioni successive con Paice. E sarebbe stato preferibile pubblicare quelle. Però, sia chiaro, Live… In The Heart Of The City resta un grande live, ed è un grande tassello nella discografia della band.

COME AN’ GET IT (1981)
Il tempo di niente e gli Whitesnake sono già in studio, pronti a lavorare al successore di Ready An’ Willing. Dare seguito ad un album praticamente perfetto sarebbe stata dura per chiunque, ma questa band, ancora euforica per i risultati ottenuti nell’ultimo periodo, riesce a non deludere le aspettative, e Come An’ Get It è un altro gran lavoro con classici memorabili. La titletrack apre il disco con un ritmo groovy magnificamente dettato da Paice e con un Coverdale strepitoso ammaliatore sensuale, per una rielaborazione propria dell’archetipo rappresentato da All Right Now dei Free. Con Hot Stuff si va nell’ambito dei pezzi tirati dominati da un grande assolo di Lord: forse ormai una soluzione sicura per la band, ma una soluzione che riesce sempre bene. Don’t Break My Heart Again è un nuovo grande hit, pezzo drammatico e pesante incentrato su un basso pulsante e su belle armonie di chitarra sul ritornello. Lonely Days, Lonely Nights rappresenta un altro approdo sicuro per la band, quello del blues-rock lento e drammatico, ma la performance è ancora una volta magnifica. Wine, Women an’ Song è uno dei pezzi più euforici del disco: uno strepitoso boogie rock che dal vivo diventerà uno dei momenti più esaltanti del set. Con la grande Child Of Babylon torniamo su temi drammatici, e siamo sicuramente di fronte ad uno dei momenti migliori dell’album, mentre con Would I Lie To You ritorna il Coverdale più beffardo e sardonico: il pezzo sarà pubblicato come singolo ma, per evitare la possibile censura della BBC, la battuta finale “just to get in your pants? I think so!” presente nell’album verrà lasciata fuori. Girl è un blues rock malizioso e sensuale, mentre Hit an’ Run è un altro brano tirato e vitale, a testimonianza del fatto che Come An’ Get It è fondamentalmente un album dettato dal buon umore. Conclusione con ‘Till The Day I Die, altro blues semi-acustico sulla scia di Ain’t Gonna Cry No More che suggella perfettamente un altro grande lavoro.  Produzione, ancora una volta, di Martin Birch, ma questa è l’ultimo disco in cui “la vespa” sarà coinvolto appieno.

 

Don’t Break My Heart Again: come si può vedere, all’epoca non c’era molta fantasia nei video ufficiali della band.

La band va di nuovo in tour, contribuendo a portare l’album al secondo posto delle classifiche britanniche, ma questa volta i problemi con il management iniziano a farsi più seri. Se, in patria, le cose vanno sempre alla grande (gli Whitesnake saranno vice-headliner a Donington, suonando prima degli Ac/Dc), continua a mancare il riscontro economico per gli sforzi effettuati. Un altro tour americano male allestito vedrà il Serpente abbandonare prima del previsto il suo posto di “farcitura” di un “heavy metal sandwich” (parole di Coverdale) con Iron Maiden e Judas Priest. La situazione è deprimente, anche se dal vivo nessuno può rendersene conto: sul palco la band è sempre esaltante, si diverte e fa divertire con  un grande set di brani scelti da tutta la discografia, più le solite Mistreated/Soldier of Fortune Breakdown/Whitesnake. Al momento di entrare in studio per il successore di Come An’ Get It, però, l’euforia è finita, e i problemi iniziano ad emergere ed intaccare anche l’aspetto artistico. Martin Birch è ormai impiegato a tempo quasi pieno dagli Iron Maiden, e preferisce, in seconda battuta, impegnarsi con i Black Sabbath, che pagano sicuramente meglio di quanto non faccia Coletta. Al suo posto arriva Guy Bidmead, fresco della produzione del solista di Marsden, ma non c’è lo stesso feeling: Birch era a tutti gli effetti un membro aggiunto della band, e aveva un’alchimia particolare con i musicisti. Durante la registrazione insorgono altri problemi: Paice va incontro ad un blocco psicologico e ha difficoltà a creare le sue parti di batteria; sarà una fase che condizionerà a lungo il batterista negli anni a venire, con Ian che semplificherà notevolmente il suo stile. Come se non bastasse, Moody ormai non crede più nel progetto e lascia la band nel mezzo della fase finale della lavorazione. È la fine della formazione classica: a disco quasi completato, Coverdale decide che l’unico modo per liberarsi di Coletta è di non avere più una band. In una riunione a sorpresa, Marsden, Murray e Paice vengono informati di essere, con effetto immediato,  fuori. La band non esiste più, e David continuerà con il solo Lord e dei nuovi musicisti con cui portare in tour il disco, ma solo dopo una fase di pausa per permettere (con una notevole buonuscita) di concludere le questioni contrattuali con Coletta.

SAINTS & SINNERS (1982)
Con queste premesse, sarebbe quasi impensabile sperare che possa uscire qualcosa di buono, eppure Saints & Sinners va al di là di ogni aspettativa, includendo fra l’altro due dei classici più grandi della band. Il disco si apre con Youngblood, pezzo trascinato da un grande riff di chitarra e dal groove batteristico di Paice, seguita a ruota da una Rough an’ Ready adrenalinica e euforica. Bloody Luxury continua sempre all’insegna di grande energia con un boogie-rock martellante, e solo con una Victim Of Love dal riffing zeppelinano e dal ritornello da anthem il ritmo cala leggermente. Crying In The Rain è uno dei due classici epocali del disco: un blues drammatico e cadenzato con un grande assolo centrale di Marsden. Dal vivo sarà destinato a prendere il posto di Mistreated e, in futuro, Coverdale la traghetterà nel nuovo corso reincidendola in una nuova versione. Here I Go Again è, sicuramente, il pezzo più conosciuto della band: una power ballad introdotta magistralmente da Jon Lord e interpretata magnificamente da Coverdale. Le armonie vocali e il misurato assolo di Marsden completano il quadro di un brano splendido. Il singolo di questa versione sarà pressoché ignorato ma, quando David re-inciderà il brano per il mercato americano, gli Whitesnake scaleranno le classifiche mondiali. Ognuno avrà i suoi gusti ma, a giudizio di chi scrive, le versioni di Saints & Sinners dei due pezzi sono superiori, più calde e coinvolgenti, rispetto a quelle più scintillanti e metalliche che renderanno la band famosa ovunque. Love An’ Affection ci offre un riff à la How Many More Times (Led Zeppelin), su cui si innestano un pre-ritornello e un ritornello davvero coinvolgenti: anche questo brano è euforico e trascinante, e nulla fa pensare al fatto che in studio la situazione potesse essere deprimente. Rock’n’Roll Angels è un altro brano sinuoso con un coro da pub, l’ultimo che sentiremo in questo stile da parte da parte del Serpente Bianco, mentre Dancing Girls è più tirata è aggressiva: anche qui il semplice ritornello la fa da padrone in termini di coinvolgimento, e il breve assolo di Lord è un gioiellino. Finale affidato ad una titletrack maliziosa e groovy, buon suggello di un disco che non lascia  trapelare nulla della crisi interna alla band. A causa del cambio di musicisti, e della pubblicazione di videoclip in cui i nuovi arrivati mimano l’esecuzione dei brani, molte enciclopedie e riviste hanno a lungo accreditato l’album alla nuova line-up della band… ma basta ascoltare la batteria di Youngblood per rendersi conto di chi suoni veramente! L’unico contributo fornito dai nuovi è da trovare nei cori di Mel Galley, registrati da un Martin Birch richiamato all’ultimo momento da Coverdale per completare le parti vocali e curare il mix finale del disco.

 

Here I Go Again. Playback dei nuovi membri, sulla musica suonata dai vecchi. Diventerà un classico!

WHITESNAKE Mk V – Ottobre 1982 – Dicembre 1983

Foto promozionale della formazione di Slide It In. Powell, Galley, Lord, Coverdale, Hodgkinson, Moody.
Autore a me ignoto.

Anche se Coverdale smentisce la cosa con un comunicato ufficiale, gli Whitesnake sono di fatto sciolti, il cantante si libera del contratto con Coletta e inizia, con calma, la ricerca di nuovi musicisti con cui portare in tour Saints & Sinners. Il primo tassello è Jon Lord, cui viene chiesto di rimanere: Jon è deluso, ferito per l’allontanamento dell’amico e cognato Paice, e valuta le sue opzioni. Alla fine decide di restare per un po’, probabilmente sapendo già che nel suo futuro ci sarà l’inevitabile reunion dei Deep Purple Mk II. L’idea di David è di trasformare la band in un supergruppo con nomi ultranoti della scena hard rock. La prima recluta è Cozy Powell, il poderoso batterista noto per il suo passato con Rainbow e Michael Schenker Group. Per i due chitarristi, Coverdale punta davvero in alto, corteggiando sia Gary Moore che Michael Schenker. C’è anche un approccio a Jimmy Page ma, in questo caso, si parlerà della possibilità di una collaborazione fra i due e non, ovviamente, del possibile ingresso di Jimmy negli Whitesnake, ipotizzato da certa stampa britannica. La collaborazione si realizzerà poi una decina d’anni dopo. Alla fine, il cantante si renderà conto di dovere ridimensionare le proprie ambizioni, e il primo chitarrista reclutato è… Micky Moody, che viene convinto quindi a tornare nel suo ruolo.

Il comunicato con l’annuncio della nuova formazione.

A prendere il posto di Marsden è un nome noto, sì, ma sicuramente non di rilievo: Mel Galley, già nei Trapeze di Glenn Hughes, viene scelto grazie ai demo che dimostrano la sua capacità di scrivere solidi brani hard rock, nella direzione che Coverdale vuole intraprendere. Il suo stile come chitarrista solista è decisamente più nervoso e rock, rispetto a quello  fluido, bluesy e melodico del suo predecessore. A dimostrare il fatto che, a questo punto, ogni velleità di costruire un supergruppo di nomi noti è stata messa da parte, al basso viene reclutato il sessionman di estrazione jazz-rock e blues Colin “Bomber” Hodgkinson che David ha avuto modo di apprezzare su diversi album: il cantante è impressionato dalle sue capacità da virtuoso e dal fatto che utilizzi il plettro, producendo un sound metallico più vicino a quello di Glenn Hughes rispetto a quello di Murray. Ma Hodgkinson si rivelerà una scelta sbagliata: per lui quello con gli Whitesnake è un lavoro come un altro, la musica suonata dalla band gli interessa poco, e sul palco tenderà ad eclissarsi in un angolino, un corpo estraneo rispetto al resto della band. L’album esce finalmente nel Novembre 1982, undici mesi dopo lo scioglimento della band che lo aveva suonato, e i nuovi Whitesnake vanno in tour per promuoverlo. Il feeling dei brani è decisamente diverso: Powell ci mette tutta la sua energia, e i brani vengono tutti accelerati. In alcuni casi anche troppo: i pezzi più groovy, come Ready An’ Willing, perdono parecchio. Galley è un chitarrista solido, ma anche decisamente più ruvido rispetto a Marsden. Ci sono ancora momenti di divertimento, ma l’umore generale è diverso anche se professionalmente la band è impeccabile, una vera e propria forza della natura. Il tour europeo va decisamente bene, e ormai la situazione sembra solo rosea. Dal set sparisce Mistreated, sostituita da Crying In The Rain, e il breve accenno a Soldier Of Fortune è ormai l’ultimo legame con il passato porpora di Coverdale e Lord. Here I Go Again diventa immediatamente un nuovo classico, e non uscirà mai più dal set. Nell’agosto 1983 la band raggiunge l’apice con la partecipazione da headliner al Monsters of Rock di Donington: per festeggiare l’occasione viene eseguita per l’ultima volta Mistreated e viene presentata la nuova Guilty Of Love, pubblicata come singolo e destinata ad essere inclusa nel nuovo album.
La band inizia anche la lavorazione del nuovo disco: ma anche in questa occasione non mancano i problemi. Eddie Kramer, il produttore scelto, si rivela non all’altezza della situazione, e Coverdale si trova in difficoltà a registrare le parti vocali. Moody non crede più nella band e contribuisce molto poco, mentre Hodgkinson conferma il suo disinteresse generale in una musica che non gli interessa, e si limita a fare il professionista senza essere felice della situazione. Alla fine, a cercare di salvare la situazione arriverà ancora una volta Martin Birch: l’album viene finalmente pubblicato ma, come già per il precedente, la line-up che lo ha suonato non esiste già più.

SLIDE IT IN – Versione UK (1984)

Slide It In esce nel Regno Unito nel Gennaio 1984, con il mix finale del solito Martin Birch. Il disco si apre con Gambler, gran pezzo drammatico e cadenzato sorretto dal riffing di Galley e magistralmente interpretato da un Coverdale in stato di grazia. La titletrack Slide It In è un brano ruffiano e trascinante, perfettamente costruito su batteria e chitarra e con un testo che porterà molte critiche al cantante, ormai accusato dalla stampa inglese di avere superato ogni limite del buon gusto nei suoi doppi sensi a sfondo sessuale. Standing In The Shadow è una canzone dal gran potenziale, che però non viene pienamente espresso in questa edizione del disco, mentre con Give Me More Time ci ritroviamo di fronte ad un hard rock rocciosissimo in cui, ancora una volta, il riffing di Galley la fa da padrone. È con le due successive canzoni, però, che la band piazza i due veri colpi da maestro: Love Ain’t No Stranger inizia come un lento per organo e voce, prima di esplodere in uno strepitoso hard rock drammatico e tirato, per il capolavoro assoluto del disco; Slow An’ Easy è invece il canto del cigno artistico di Moody, un pezzo incentrato sulla sua slide guitar (invero molto simile a quella della versione dei Led Zeppelin di In My Time Of Dyin’) su cui Coverdale imbastisce un’interpretazione emotiva sublime. Spit It Out All Or Nothing sono altri due pezzi rocciosissimi sempre figli della perfetta partnership Coverdale/Galley, con il testo della prima a lasciare ancora una volta perplessi i detrattori dei doppi sensi portati all’estremo. Finale all’insegna dell'”amore” con due composizioni a firma Coverdale: la sleazy Hungry For Love e una trascinantissima Guilty Of Love, con armonie di chitarra degne dei migliori Thin Lizzy. Menzione speciale, infine, per la bonus track giapponese: una cover di Need Your Love So Bad di Mertin John Jr per soli organo e voce, per un’interpretazione davvero da brividi. Slide It In è sicuramente l’album più hard rock degli Whitesnake degli anni d’oro: il songwriting è di altissimo livello, con brani grintosi e coinvolgenti… ma bisogna dire che qualcosa, in questa versione del disco, non funziona appieno. Forse lo scarso coinvolgimento di un Moody e un Hodginkson molto poco motivati, forse la scarsa comprensione della nuova direzione da parte di un Martin Birch chiamato troppo tardi a cercare di risolvere la situazione, non permettono alle canzoni dell’album di brillare come avrebbero potuto. Verrebbe da dire “peccato!”, se non fosse che ci sarà una seconda occasione per mettere a posto le cose!

WHITESNAKE Mk VI – Dicembre 1983 – Aprile 1984

Foto promozionale dell’edizione americana di Slide It In: Murray, Sykes, Powell, Coverdale, Lord, Galley.
Autore a me ignoto.

Già prima dell’inizio della lavorazione di Slide It In, Coverdale, ormai liberatosi dell’incompetenza di Coletta, si guarda attorno alla ricerca di un contratto americano. La band cattura, in particolare, l’attenzione della Geffen e del suo scopritore di talenti John Kalodner: Kalodner resta folgorato dalla voce del cantante, dalla sua presenza scenica e dai brani del gruppo, ma ha problemi con un sound che considera troppo vecchio e, soprattutto, con i musicisti che compongono la band, che considera inadeguati in termini di presenza scenica. In particolare, Kalodner ha un avversione per i “tipi con i baffi” (Moody, Hodgkinson e Lord) che considera invendibili in termini di immagine in una scena in cui i Van Halen e David Lee Roth sono i punti di riferimento. A togliere parzialmente le castagne dal fuoco arrivano il secondo addio di un Moody demotivato dalle scelte stilistiche e il siluramento di un Hodgkinson considerato una zavorra sotto ogni punto di vista. A contribuire in buona parte a risolvere la situazione, arrivano le scelte successive di Coverdale: al basso viene richiamato Neil Murray, che  riporterà il suo carisma scenico e la sua competenza musicale nella band, ma la scelta fondamentale è quella che riguarda la chitarra! David si innamora musicalmente di John Sykes, chitarrista proveniente dai Tygers Of Pan Tang che ha appena provveduto a rivitalizzare i Thin Lizzy nel loro ultimo album e tour. Sykes è tutto quello che Coverdale e Kalodner cercano: alto (in diverse foto promozionali verrà però “abbassato” per non far sfigurare il leader), aitante, biondo, virtuoso, dotato di uno stile chitarristico moderno adatto ad imporsi nell’epoca dei guitar hero. Quello che serve per provare a sfondare negli USA! Molti vecchi fan non apprezzeranno il suo modo di suonare, considerato tutto apparenza e niente sostanza, ma a David la cosa non interessa: i vecchi fan sono ancora pochi rispetto a quelli che lo aspettano dall’altra parte dell’oceano! Per Kalodner non siamo ancora nella situazione ideale (c’è ancora Lord, con il suo pizzetto ingrigito e il suo vetusto hammond), ma ogni esitazione è ormai alle spalle. Il problema, a questo punto, è di rendere Slide It In presentabile per il mercato americano!

SLIDE IT IN – Versione USA (1984)
Serve la persona giusta, e la persona giusta arriva, nella figura di Keith Olsen: il produttore sa cosa serve per ottenere il successo a stelle e strisce, e sa dove mettere le mani. Per prima cosa, vengono chiamati i due nuovi membri. Murray reincide le parti di basso del disco, rivitalizzandolo con il suo stile convinto e pulsante. Anche Sykes ha la possibilità di metterci del suo, rimpiazzando alcuni assoli (sia di Moody che di Galley) e re-energizzando alcuni riff. Olsen riesce così a fare un miracolo, aggiungendo potenza e dinamica ad un disco che suonava piatto e cupo. Anche l’ordine delle canzoni viene riarrangiato per ottenere un impatto maggiore, con Slide It In messa in apertura, seguita dai due pezzi forti Slow An’ EasyLove Ain’t No Stranger. Tutto suona notevolmente meglio, e improvvisamente l’album si rivaluta. Basti pensare ad una Standing In The Shadow, che messa ora a conclusione del disco e rinfrescata nel sound, convince ora finalmente appieno. La cosa più importante è che Coverdale ha finalmente ottenuto ciò che voleva. L’America si accorge degli Whitesnake, e finalmente cominciano ad arrivare i ritorni economici tanto attesi!

 

Arriva finalmente il budget per fare qualcosa di diverso ma, nel frattempo, non ci sono già più due membri della band.

LA FINE (1984)

Sembra una barzelletta ma, per la terza volta di fila, al momento dell’uscita del disco la band che l’ha registrato non esiste più. Succederà ancora, e la cosa non impedirà a Coverdale di raggiungere l’apice commerciale della sua carriera, ma questa non è una storia che racconteremo qui. Quello che accade in questa occasione è che Galley si infortuna seriamente ad un braccio ad inizio tour. Resterà per un breve periodo come un membro ufficiale della band, ma gli Whitesnake si esibiranno senza di lui con un solo chitarrista: una volta verificato che Sykes sarà in grado di continuare il tour da solo, Mel sarà licenziato ufficialmente, senza suonare mai più con la band. È ipotizzabile che Kalodner sarà ben felice della cosa, visto che il look operaio di Galley poco si adatta alle sue idee. In aprile, più o meno in coincidenza con l’uscita americana dell’album, Lord lascia: è ormai chiaro che il suo ruolo sarebbe quello di “orchestrina portatile”, e c’è la reunion dei Deep Purple che lo aspetta. Meglio così per tutti. Visto che le tastiere non sono cool sarà rimpiazzato da un tipo anonimo che suonerà felicemente dietro il palco parti plasticose di orchestrina portatile. Niente più persone coi baffi, David Coverdale continuerà la sua strada verso lo stardom, e ci riuscirà facendo comunque grande musica. Ma gli Whitesnake, intesi come band, muoiono qui: da questo momento in poi ci sarà un progetto che porta lo stesso nome e che ruota attorno al suo leader, come una giostra (qualcuno l’avrebbe chiamato “roundabout”) di musicisti intercambiabili. Purché belli o, almeno, con l’immagine giusta. Lunga vita agli Whitesnake! 

LIVE BITES

Abbiamo già anticipato come, per raccontare al meglio gli Whitesnake, non si possa prescindere da un’analisi dell’evoluzione live della band. In questa sezione, discuteremo quindi pubblicazioni ufficiali e non, per avere un quadro completo di quello che è stato il Serpente Bianco.
Nota: per le pubblicazioni non ufficiali non includerò link, ma è tutta roba che si può trovare molto facilmente in rete con delle semplici ricerche! Buona caccia!

THE VINTAGE COLLECTION 1978: ALKMAAR, LONDON & BRIGHTON (non ufficiale)
The Vintage Collection è un doppio album che contiene diverse buone registrazioni dei primi anni della band, due con Solley e una con Lord. Alkmaar è registrato in terra olandese in giugno, e vede immediatamente la band costruire un ponte con il passato di David grazie ad una Lady Luck funky con una bella jam centrale. Come On ci porta subito nella nuova dimensione coverdeliana prima di una Ain’t No Love In The Heart Of The City che si caratterizza per un uso delle tastiere diverso rispetto a quello che sentiremo con l’arrivo di Lord. Steal Away è uno dei momenti chiave dei primi anni, uno stomp esaltante che non può non mettere di buon umore, mentre Mistreated è già un tour-de-force per Coverdale e Marsden. Su Belgian Tom’s Hat Trick la band ha la possibilità di svisare con i suoi strumenti, mentre  Lady Double Dealer viene eseguita con delle interessanti armonie di chitarra sull’assolo. London contiene invece sei pezzi registrati al Paris Theatre della capitale inglese una ventina una ventina di giorni dopo e la band è già più rodata e sicura di sé. Come On è ora il pezzo di apertura, e in generale il gruppo suona più compatto e coeso. Se queste due registrazioni ci servono a farci capire come suonassero gli Whitesnake con Solley, è la terza quella che vale veramente la pena ascoltare: tratta da una delle prime date del tour di Trouble ci offre un Jon Lord che fa davvero la differenza in termini di presenza sonora, anche in un mix che penalizza in parte il suo hammond. Il momento chiave del concerto è rappresentato dalla fase che comincia con l’assolo di Jon, assolo che sfocia in una drammatica intro, tutta da ascoltare, per Take Me With You. E il brano di apertura di Trouble viene qui proposto in una versione a dir poco epocale, con evidenti influenze zeppeliniane nella jam centrale (non me ne voglia Coverdale, ma ci sono anche echi di Immigrant Song). Degne di nota anche la cover di Rock Me Baby (“You rock me woman ‘till the juice runs down my leg”) e la tirata conclusione all’insegna del medley Breakdown/Whitesnake, che ci fanno capire come il Serpente Bianco del periodo avesse già tutte le carte in regole per affermarsi come grande live band!

READING 1979
Uscita ufficiale inclusa nel boxset Box ‘O’ Snakes, e derivata da una registrazione radiofonica del noto festival inglese. Siamo nel tour di Lovehunter, è arrivato Ian Paice, e si sente. Oh, se si sente! Il concerto non è purtroppo integrale, ma non importa: i sette brani qui presenti sono davvero esaltanti, con il batterista a dettare i tempi in maniera devastante a partire da Walking In The Shadow Of The Blues e per finire con la tellurica Breakdown/Whitesnake. In mezzo, tante grandi cose come  un’intensissima Ain’t No Love In The Heart Of The City, una Steal Away che con Paice è diventata esaltante più che mai e delle grandi versioni di Mistreated (con Soldier Of Fortune), Belgian Tom’s Hat Trick, e Lovehunter. Live imprescindibile!

DEFINITIVE NAGOYA 1980 (non ufficiale)
Buona registrazione soundboard completa di uno degli ultimi concerti a supporto di Lovehunter, questo bootleg cattura davvero la band in un momento di grande forma. Degna di nota la presenza di You ‘n’ Me, uno dei tipici brani su cui il gruppo sapeva essere davvero trascinante. In questi primi anni, Ain’t No Love In The Heart Of The City ha un’intensità unica, che non avrà più dopo l’addio di Marsden. Mistreated ha già l’arrangiamento definitivo, con le nuovi parti di piano e chitarra che fanno di questa versione un capolavoro. Steal Away è, purtroppo, già uscita dal set, e non si capisce perché, ma ci consoliamo con una grande Might Just Take Your Life, con una Lie Down davvero esaltante e con un medley di riff purpleiani nell’assolo di Lord. Chiudono, per l’ultima volta, Rock Me BabyBreakdown/Whitesnake, che saranno mandate in pensione dopo questo tour. Nagoya 1980 è davvero uno dei migliori live non ufficiali della band, ed è assolutamente consigliato a chi voglia ascoltare gli Whitesnake al top della forma!

DEFINITIVE LIVE… IN THE HEART OF THE CITY (1980) (non ufficiale)
Un paio di mesi dopo il tour giapponese, con Ready An’ Willing ormai disponibile, gli Whitesnake sono a Londra a registrare il loro album dal vivo. Questo bootleg contiene una registrazione dal pubblico della seconda delle due date, fornendoci quindi il set completo. E bisogna dire che, pur non avendo ovviamente la pulizia dell’album ufficiale, siamo di fronte ad un altro grande live, che fa aumentare l’amarezza per la decisione di pubblicare una versione ridotta del set. Il concerto è davvero ottimo, forse giusto appena inferiore a quello di Nagoya, con le nuove canzoni a catturare l’attenzione. Per concentrarsi su quello che non c’è sulla versione ufficiale, segnaliamo una Nighthawk (Vampire Blues)  qui rivista per permettere alla band di esprimersi in chiave strumentale, l’assolo di Jon Lord (con un medley di Woman From TokyoLazy, Smoke On The Water Child In Time), la nuova versione di Mistreated e un breve accenno alla sempre grande Belgian Tom’s Hat Trick. Take Me With You è qui lunghissima, con una jam centrale che include anche la presentazione della band. Per chi ama Live… In The Heart Of The City, questa versione estesa non ufficiale è un ottimo compendio che permette di avere una visione più completa di ciò che erano gli Whitesnake di questo tour.

READING 1980
Uscito anche questo ufficialmente in Box ‘O’ Snakes, questo live è, e lo dico senza paura di essere contraddetto, il migliore live ufficiale degli Whitesnake! Certo, non è completo. Certo, è una registrazione radiofonica non curata come un disco dal vivo vero e proprio. Ma non importa! Sette brani e 55 minuti di pura energia elettrica, con la versione più grande di sempre di Mistreated (quantomeno per quanto riguarda gli Whitesnake) e delle terremotanti LoveHunter Fool For Your Loving. Gli Whitesnake nudi e crudi erano davvero una gran cosa, e nulla lo dimostra meglio di questo live!

LIVE IN WASHINGTON 1980 – DVD
Uscita video ufficiale inclusa nel solito Box ‘O’ Snakes, Live In Washington 1980 ci presenta la band nel corso del suo tour americano a supporto dei Jethro Tull. Si tratta, ovviamente, di un set ridotto, ma è comunque una gioia potere vedere la line-up classica in concerto. Si tratta di una buona prova energica con belle versioni degli otto brani eseguiti, tutti provenienti dal repertorio proprio della band, e con gli highlights rappresentati da Come On, Ain’t No Love In The Heart Of The City e Fool For Your Loving. Sul Tubo se ne trova una versione tagliata e con qualità video peggiore; quindi, se vi interessa, cercate di procurarvi la versione ufficiale!

DRAGONSNAKE – TOKYO 25TH JUNE 1981 (non ufficiale)
Per nostra fortuna, gli Whitesnake perdono ancora una volta la battaglia con i professionisti giapponesi del bootleg (Murray racconterà che ad ogni concerto i roadie si dovevano mettere a cercare stanze nascoste in cui avveniva il “misfatto”), anche se questa volta si tratta solo di una registrazione fatta dal pubblico: se sopportate l’incessante battimani nipponico, si tratta comunque di un live eccellente, che mostra come, anche nel tour di Come An’ Get It, la band girasse ancora a pieno regime. Walking In The Shadow Of The Blues è ora la canzone d’apertura, cosa che la rende ancora più esaltante, dopodiché la band resta nel passato recente con delle ottime Sweet Talker e Ready An’ Willing. Con Don’t Break My Heart Again  Till The Day I Die arrivano i primi due pezzi del nuovo album, prima di due ottime versioni di Lovehunter Mistreated (con la solita Soldier Of Fortune). L’assolo di Lord è molto lungo e creativo, con un’improvvisazione su cui entrano anche Murray e Paice: per chi ama i musicisti che inventano sul momento, è sicuramente uno degli highlight dello show! La solita Belgian Tom’s Hat Trick lascia spazio a tutta la band e introduce l’assolo di batteria, prima di una Ain’t No Love In The Heart Of The City sempre coinvolgente. Would I Lie To You è, prevedibilmente, molto trascinante dal vivo, mentre Fool For Your Loving Come On (suonata per l’ultima volta) ci offrono l’ennesima iniezione di energia elettrica. In questo tour debutta un pezzo speciale di ringraziamento al pubblico: nella sua prima versione Thank You Blues è davvero un blues molto tradizionale dove la voce di Coverdale e la chitarra (suppongo di Marsden) si intrecciano in maniera magistrale. Il brano tornerà nei tour successivi, anche se con un arrangiamento differente. Quando parte il piano honky tonky di Wine, Women An’ Song, capiamo subito che ci si divertirà, e tanto: il brano ci precipita in una grande atmosfera festosa, al cui buonumore è impossibile resistere. Coverdale ne approfitta per presentare la band e lasciare a tutti un loro spazio, ed è davvero una maniera magistrale di chiudere alla grande uno show fantastico!

LOADED GUN – LUDWIGSHAFEN 19TH MARCH 1983 (non ufficiale)
I rinati Whitesnake con Powell, Galley e Hodgkinson partono in tour a presentare Saints & Sinners e vengono invitati da un programma televisivo tedesco a fare da headliner ad un festival con band di estrazione differente. La trasmissione viene immediatamente piratata, ed esistono innumerevoli versioni di questo concerto, sia in video (si trova integrale sul Tubo) che in audio. Quando attacca Walking In The Shadow Of The Blues capiamo subito che la musica è, letteralmente parlando, cambiata: la chitarra di Galley è decisamente più dura di quella di Marsden, e Powell trasformerà i pezzi in cavalcate metalliche. La cosa funziona molto bene su alcuni brani (vedi Rough An’ ReadyDon’t Break My Heart Again), meno su altri. Chi però assiste ai concerti della band dal vivo non si preoccupa probabilmente troppo della cosa, vista la salutare dose di energia e il livello di professionalità musicale. Lovehunter, oltre al solito assolo di Moody, include anche uno spazio personale per Hodgkinson, che esce per un attimo dall’oscurità per ritagliarsi il suo momento di gloria. Sia chiaro, Colin suona alla grande, ma sembra comunque un corpo estraneo in una band in cui Neil Murray offriva decisamente di più in termini di presenza e partecipazione. Crying In The Rain prende il posto di Mistreated, con Galley alle prese con un lungo assolo nervoso; non manca, comunque, il solito accenno a Soldier Of Fortune nel finale, sempre uno dei momenti più emotivamente coinvolgenti dello show. L’assolo di Lord ora include parti dal suo album solista Before I Forget, Powell ha il suo momento sotto i riflettori con l’assolo basato sulla 1812 Overture di Čajkovskij, prima di una Ain’t No Love In The Heart Of The City che ha ormai perso il fascino dei vecchi tempi e una Fool For Your Loving che, riascoltata da casa, suona troppo veloce e confusa. Thank You Blues ha ora una nuova veste più corale e melodica, con il testo che viene cambiato da “I wanna thank you…” in “We wanna thank you…”, ed è oggettivamente coinvolgente, mentre Wine, Women An’ Song è sempre divertente e trascinante, ma ora più diretta e meno avventurosa. Gli Whitesnake del 1983 hanno scelto la strada della potenza e del tiro, sacrificando praticamente del tutto quelle jam e quei momenti più imprevedibili che erano comunque una parte di ogni loro concerto: i tempi sono davvero cambiati!

WHITESNAKE COMMANDOS: DONINGTON 1983
Il Serpente Bianco ha il suo grande momento di gloria europeo con la partecipazione da headliner al Monsters Of Rock del 1983, cui si presenta in forma smagliante. Il concerto viene ripreso e pubblicato su videocassetta, seppur con qualche taglio (in particolare sull’assolo di Lord). Rispetto a Ludwigshafen viene eseguita per la prima volta Guilty Of Love, pubblicata in quei giorni come singolo, e viene rispolverata ufficialmente per l’ultima volta MistreatedPer il resto non ci sono grandi variazioni di nota: gli Whitesnake sono ormai ciò che i britannici chiamano powerhouse, una macchina da concerti fatta di energia e potenza. Certo, qualche crepa c’è (Hodgkinson e Moody ormai con un piede fuori), il feeling dei tempi vecchi è andato, ma il Serpente sta mutando pelle, e il passato è sempre più alle spalle.

LIVE IN GLASGOW 1984
Incluso nella Ultimate Special Edition di Slide It In, ci presenta uno dei migliori show del tour del disco: Galley è ancora abile e arruolato, Lord non ha ancora lasciato e il suo hammond caldo e pesante è ancora una componente fondamentale del sound della band. Lo show è altamente adrenalitico ed energico, con Murray a riportare un basso convinto e Sykes che è di fatto la nuova star della band. A John vengono affidati anche assoli, come quello di Crying In The Rain che nel tour precedente erano stati di competenza di un Galley che ora viene ridotto ad un ruolo più di secondo piano. Il nuovo arrivato se la cava bene in alcuni casi (vedi appunto Crying In The Rain o Slide It In), mentre in altri (Guilty Of LoveFool For Your Loving) i suoi assoli sono solo orride cascate di note veloci. Ciò nonostante, il risultato complessivo è positivo, e il concerto è davvero trascinante ed esaltante ,con brani come Love Ain’t No Stranger o la conclusiva Don’t Break My Heart Again proposti in chiave potentissima. Il caldissimo pubblico scozzese approva chiaramente! La scaletta è fortemente incentrata sul nuovo album, da cui vengono estratti cinque brani (oltre a quelli già citati ci sono, infatti, Slow An’ Easy e l’opener Gambler): David dimostra chiaramente di puntare sul nuovo corso. L’assolo di Lord è di una bellezza struggente: Jon sa già che la sua avventura con la band sta per terminare, e ci tiene, evidentemente, a lasciare alla grande. Proprio il suo hammond è ciò che mantiene ancora un legame con il sound classico della band, ma è un legame che sta per rescindersi. Di conseguenza, noi ci fermiamo qui: la mutazione si completerà a breve e, nel giro di tre anni, Coverdale potrà coronare il suo sogno di successo planetario.
Ma gli Whitesnake che noi amiamo veramente non esistono più.

VIRGIN STEELE – 35 anni di romanticismo barbarico!

Virgin Steele logo

David De Feis e Edward Pursino
David DeFeis e Edward Pursino
Fra la seconda metà degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, la scena musicale dei sobborghi di New York si fa viva della presenza di nuove band hard rock ed heavy metal nate, in buona parte, fra le comunità dei figli e nipoti di immigrati sud-europei ed ispanici. Nomi come Manowar, Twisted Sister, Riot, Foreigner, i Fandango di Joe Lynn Turner ed altri ancora appartengono, chi più chi meno, a questa categoria. E vi appartengono sicuramente anche quei Virgin Steele creati nel 1981 dal chitarrista di origine francese Jack Starr, e poi guidati per tutta la carriera dal carismatico e spiritato cantante e tastierista David DeFeis (dalle radici italiane e francesi), una band capace di contribuire a scrivere il manuale dell’heavy metal epico e di quello sinfonico, per alcuni dei picchi più alti raggiunti dal genere

Starr, O'Reilly, DeFeis, Ayvazian
Starr, O’Reilly, DeFeis, Ayvazian
La formazione originale dei Virgin Steele, oltre che da Starr (chitarra) e DeFeis (voce e tastiere) è composta dal batterista Joey Ayvazian e dal bassista Joe O’Reilly. Come molte band americane dell’epoca, il quartetto cattura dapprima l’attenzione del solito Mike Varney, che pubblica la loro Children Of The Storm sulla raccolta U.S. Metal Volume II. La spettacolare qualità del brano dimostra già come i Virgin Steele siano pronti al debutto discografico.

VIRGIN STEELE (1982)
Virgin Steele IL’album di esordio esce autoprodotto nel 1982, per essere poi distribuito in Europa l’anno dopo da Music For Nations. Il disco è un valido lavoro di metallo urbano americano, molto vicino ai primi Riot e con influenze che vanno dai Led Zeppelin ai Grand Funk passando per i Judas Priest. Starr, con il suo spettacolare chitarrismo torrido e viscerale, è ancora il punto focale della band, mentre DeFeis, pur appartenendo già alla categoria delle ugole strepitose in un piccolo corpo, è ancora acerbo vocalmente e tende a strafare sugli acuti. L’album, nonostante un songwriting lontano dall’essere maturo e una produzione scarsa (di fatto è una raccolta di demo), si fa apprezzare per la rozza energia, per gli assoli spettacolari e la carica dei riff: American Girl, la sleazy Living In Sin e la power ballad Still In Love sono sicuramente fra le cose migliori. Oltre alle strumentali Minuet in G Minor e Lothlorien, in cui DeFeis inizia a mettere in campo le sue intenzioni sinfoniche e pianistiche, due pezzi in particolare cominciano però a mostrarci i Virgin Steele più epici e sontuosi: si tratta del brano autointitolato e, soprattutto, della già citata Children Of The Storm. Quest’ultima è una spettacolare cavalcata metallica venata di toni sinfonici, ed è il primo vero grande classico della band.
Fra le bonus track della ristampa in CD si segnala poi in particolare la progressiva The Lesson, in cui David si ritaglia uno spazio importante alle tastiere.
Virgin Steele è sicuramente uno di quei vinili che hanno lasciato il segno fra gli appassionati di culto della primordiale scena U.S. Metal (fra gli altri, Queensrÿche e Metallica, fra i primi fan del quartetto), ma, nonostante le rimostranze dei duri e puri che preferiscono questa prima, più chitarristica, incarnazione della band, il meglio dovrà sicuramente ancora venire.


GUARDIANS OF THE FLAME (1983)
Guardians of the FlameIl secondo album rappresenta una chiara evoluzione rispetto al debutto, in una direzione più vicina al power metal americano. L’opener Don’t Say Goodbye (Tonight) è un nuovo classico, una cavalcata di heavy metal melodico a stelle e strisce che si stampa subito in testa. Brani come la cupa Burn The Sun, la priestiana Life Of Crime e la veloce Metal City ci mostrano il lato più tagliente e duro della band, ma appare subito evidente una dicotomia fra pezzi come questi, che portano la firma del solo Starr, e quelli che invece che vedono DeFeis impegnato come autore o co-autore, canzoni che invece hanno un taglio più epico o melodico. Oltre al pezzo d’apertura nominato in precedenza, spiccano fra questi la titletrack (dal ritornello magniloquente) e, soprattutto, la possente The Redeemer, brano massiccio e sontuoso che ci riporta in maniera indubbia ai Rainbow del periodo Dio, rivisitati in chiave metallica e sferragliante. Indubbiamente il punto più alto dell’album, e uno dei più alti della carriera della band. Il disco (che si conclude con la bella ballata pianistica A Cry In The Night) viene, dopo pochi mesi, seguito da un EP (Wait For The Night) scritto quasi interamente da Starr, che rappresenterà il canto del cigno dei Virgin Steele originali. Starr vuole infatti insistere su un sound puramente metallico e chitarristico, mentre DeFeis cerca un evoluzione verso uno stile più complesso ed elegante e non tollera più le scelte compositive di quello che, fino a quel momento, era stato il leader del gruppo. La separazione è inevitabile, e O’Reilly e Ayvazian scelgono di abbandonare il fondatore della band per mettersi dalla parte del’ambizioso cantante dagli occhi spiritati. Per alcuni fan della prima ora, e per gli oltranzisti del metallo più puro, la separazione da Starr rappresenta la fine dei Virgin Steele, per tutti gli altri è il momento in cui il gruppo inizierà il percorso verso le sue vette più alte. Indubitabile, comunque la si pensi, che Guardians Of The Flame sia un gran bel disco.


NOBLE SAVAGE (1985)
NOBLE SavageNon senza qualche problema giudiziario relativo a una querelle sull’uso del nome con Starr, i Virgin Steele riescono a ripartire nel 1985. Alla chitarra c’è ora Edward Pursino, musicista delizioso dotato di uno stile più elegante e misurato del suo precedessore, ma comunque capace di concepire grandi riff ed assoli, nonché più disposto a mettersi in secondo piano dal punto di vista compositivo. Il devastante pezzo di apertura We Rule The Night è un classicissimo, con un DeFeis davvero magistrale dal punto di vista vocale: David, su questo album, ha ormai il pieno controllo della propria voce, ed è in grado di passare con facilità da ruggiti leoneschi a falsetti angelici (di cui tende ancora ad abusare). L’album svaria fra sontuosi pezzi epici (la title track, Thy Kingdom Come, una The Angel Of Light rubacchiata ad Alice Cooper), rocciosissimi pezzi heavy metal (Fight Tooth Nail, I’m On Fire) e tentativi di arena rock (Rock Me, Don’t Close Your Eyes) e,  pur non invecchiato benissimo, resta comunque un caposaldo assoluto del metal venato di epicità degli anni ’80, ponendo le basi fondamentali per il sound definitivo della band.

Virgin Steele Mk II
Virgin Steele Mk II
AGE OF CONSENT (1988)
VS AoCDopo tour importanti che sono costati alla band decisi investimenti (per pagare alcuni debiti, DeFeis e Pursino suonano e producono in semi-incognito diversi album della cosiddetta scena “metalxplotation”, per conto di band vere o finte quali Exorcist, Piledriver and Original Sin), i Virgin Steele si sentono finalmente pronti a fare il salto definitivo verso una fama maggiore: dedicano così diversi mesi a incidere il successore di Noble Savage, sicuri che la congiuntura sia quella giusta. Le cose, però, vanno nel peggiore dei modi: la casa discografica prima interferisce sulla scelta dei brani, mettendo quelli più commerciali nella facciata A del vinile, poi, per problemi finanziari, assicura solo una distribuzione minima e zero promozione al disco. Per i Virgin Steele sarà una botta considerevole, una crisi che metterà in discussione l’esistenza stessa della band. Per la ristampa di nove anni, dopo DeFeis stravolgerà la scaletta, scegliendo un ordine a lui più gradito e aggiungendo sei brani che scrolleranno dal disco la patina commerciale per enfatizzare la sua anima più epica e romantica. In entrambe le versioni, Age Of Consent resta comunque notevole, ma è sicuramente la riedizione ad essere più efficace e riuscita, ed è a questa che ci riferiremo. The Burning Of Rome è semplicemete uno dei brani più grandi della storia dell’heavy metal, una bordata epica incentrata su quello che diventerà uno dei temi più cari all’estetica romantica del cantante: Amore e Morte. Lion In The Winter, Let It Roar, Chains Of Fire e On The Wings Of The Night rafforzano l’anima metallica e sontuosa della band. Fra i brani aggiunti a posteriori spiccano l’intensissima power ballad Perfect Mansions (Mountains Of The Sun), anch’essa incentrata sul tema “amore e morte”, e una splendida rivisitazione di Desert Plains dei Judas Priest. I pezzi più commerciali tendono ad apparire fuori contesto nella versione rivista, ma la viziosa Seventeen e la ballad Tragedy sono sicuramente ottime composizioni nel loro genere.


LIFE AMONG THE RUINS (1993)
LATRCi vogliono ben cinque anni ai Virgin Steele per riprendersi dal disastro di Age Of Consent: nel frattempo DeFeis ha avuto modo di completare i propri studi classici, mentre dobbiamo prendere nota di un cambio al basso, con O’Reilly (che già non aveva suonato sul disco precedente, “coperto” da DeFeis e Pursino) rimpiazzato prima Teddy Cook e poi da Rob De Martino, entrambi più bravi del membro fondatore. Mentre la stragrande maggioranza dei fan si aspetta che il quartetto torni a sviluppare quei temi epici per cui si era conquistato il ruolo di adorata cult band, riallacciandosi allo stile di canzoni come The Burning Of Rome e Noble Savage, i Virgin Steele decidono di scontentare tutti e uscire con un album di puro hard rock di stampo blues, influenzato da Whitesnake, Aerosmith e compagnia. Una scelta doppiamente suicida, se pensiamo che, nel frattempo, è esploso il ciclone grunge, e questo genere non può più avere alcuna speranza di successo commerciale. La cosa veramente clamorosa, in tutto questo, è che il disco è assolutamente notevole: David è credibilissimo nel ruolo, affrontato con personalità e una voce stellare, di alter ego di Coverdale e Tyler, mentre il suo songwriting riesce ora ad affrontare questo tipo di brani senza risultare stereotipato; al tempo stesso Pursino ci regala delle gemme di assoli e riff massicci e pieni di groove, con la band che suona compatta e grintosa. Pezzi trascinanti e sensuali come Sex Religion Machine e I Dress In Black (Woman With No Shadow), assieme a ballad come Never Believed In Goodbye o Wildfire Woman contribuiscono alla riuscita di un album che, fosse uscito pochi anni prima, avrebbe conquistato (con un minimo di promozione adeguata) le classifiche di mezzo mondo. Chiaramente, però, Life Among The Ruins è anche un album che non può essere apprezzato dai fan dell’epic metal duro e puro, che non si dovranno comunque preoccupare: DeFeis sta già preparando la sua opera più ambiziosa, e c’è solo da aspettare.

Con De Martino
Con De Martino
THE MARRIAGE OF HEAVEN AND HELL PART I & II (1994-1995)
themarriage1Quando parte il riff sferragliante di I Will Come For You, seguito dalla voce calda e leonesca di DeFeis, tutti i dubbi sono immediatamente spazzati via: i Virgin Steele sono tornati a fare quello che ci si aspetta da loro. Uscita in due parti, The Marriage Of Heaven And Hell, è la vera e propria magnum opus della band, una sinfonia romantica in cui class ed epic metal si fondono all’insegna di un sound sontuoso, arioso, grintoso e magniloquente, figlio diretto dei brani più apprezzati della band. L’approccio sinfonico è dato dal ritornare di temi musicali, da improvvise aperture inattese e dalla visione d’insieme di un concept mitologico apparentemente vago (la storia proibita di due amanti che si reincarnano attraverso i secoli, perseguitati dalla furia delle divinità), che definisce però appieno l’essenza romantica dei Virgin Steele. Tutto funziona alla perfezione: la chitarra di Pursino è una gioia per le orecchie, David ruggisce e ammalia con la sua voce multiforme e la produzione rende finalmente giustizia al suono della band. Nel mezzo delle registrazioni della seconda parte del concept, i Virgin Steele riescono persino ad assorbire il colpo del cambio di batterista, con il membro fondatore Joey Ayvazian che viene rimpiazzato dal più metallico Frank Gilchriest. È davvero difficile trovare dei brani che si staglino rispetto al resto di un doppio album fantastico, ma il duo composto dalla complessa Prometheus The Fallen One (che deve qualcosa ad Achilles’ Last Stand dei Led Zeppelin) e dalla drammatica Emalaith (ancora una volta incentrata su Amore e Morte) riesce ad essere persino superiore al resto.


INVICTUS (1998)
invictusNonostante due ore e mezza di musica (e più, se pensiamo che The Burning Of Rome viene ora considerata il preludio dell’opera) DeFeis ritiene che la storia di Endyamon ed Emalaith non possa ancora ritenersi conclusa: ecco che quindi arrivare, con Invictus, il terzo capitolo della saga del Matrimonio di Paradiso e Inferno. Nei cinque anni dal ritorno della band, all’epoca di Life Among The Ruins, molte cose sono cambiate: mentre negli USA continua a farsi sentire l’impatto della scena grunge, in Europa è in corso una vera e propria rinascita dell’heavy metal classico nelle sue forme più maestose ed epiche, sostenuto da tutta una generazione di giovani appassionati. I Virgin Steele, che con il concept sono riusciti a costruirsi una nuova credibilità, sono pronti a conquistare un posto d’onore fra i ragazzini che impazziscono per Manowar e Blind Guardian, puntando al massimo sulla metallizzazione ed esasperazione dell’epicità del proprio stile: la band inietta nel proprio sound forti dosi dei suddetti Manowar (esperimento già tentato con successo nel secondo Marriage, con una Symphony Of Steele che richiamava Wheels Of Fire) e di power metal europeo. Persino lo stile vocale del cantante si avvicina parecchio a quello del suo connazionale Eric Adams, mentre Gilchriest ricorre ad un utilizzo massiccio della doppia cassa e la produzione si fa più distorta e violenta. Quello che si guadagna in compattezza e aggressività viene però perso in termini di ariosità e ricchezza del sound: Invictus sarà un disco che dividerà i fan, con molti dei vecchi delusi da un lavoro troppo monolitico, adorato però da molti defender oltranzisti e dalla nuova generazione di appassionati. Per DeFeis, comunque, la scommessa è sicuramente vinta, dato che Invictus è l’album più venduto della storia dei Virgin Steele. Musicalmente, l’album contiene molti momenti validi, seppure a volte soffocati all’interno di soluzioni e scelte forzate. Se la title track, di per sé esaltante, avrebbe sicuramente beneficiato di un cantato meno stressato, pezzi come Sword Of The Gods e Defiance (con il preludio Vow Of Honour) hanno sicuramente più di un perché. A mettere d’accordo tutti ci pensa, senza ombra di dubbio, l’epica conclusiva della lunga Veni, Vidi, Vici, brano capolavoro di devastante teatralità metallica che rappresenta il perfetto suggello del concept. Quello che è sicuro è che si può pensare quello che si vuole di Invictus, ma resta un fatto: con questo l’album sarà l’ultima volta che i Virgin Steele suoneranno come una band.

Gilchriest, De Feis, Pursino
Gilchriest, DeFeis, Pursino
HOUSE OF ATREUS ACT I & II (1999-2000)
AtreusCompletamente assorbito dal fuoco sacro della composizione, DeFeis si lancia immediatamente nella sua fatica successiva, un adattamento musicale dell’Orestea di Eschilo. L’obiettivo è di arrivare ad una rappresentazione teatrale (cosa che avverrà in Germania), ma anche di realizzare l’opera metal definitiva. Per avere il totale controllo artistico, per non essere vincolato dai limiti temporali degli studi di registrazione e forse anche per limitare i costi, il compositore decide di registrare tutto in casa propria. La scelta è abbastanza sciagurata: Gilchriest viene costretto a incidere le parti di batteria su un kit elettronico di bassa qualità, per un discutibile risultato sintetico; anche i riff di chitarrra di Pursino suonano ora digitali e freddi; mentre il bassista non c’è proprio, dato che De Martino se ne è andato, lasciando un vuoto che Edward e le tastiere non riescono a coprire. DeFeis ormai non ha più freni: se mai ci fosse ancora alcuna dubbio, qui si capisce che i Virgin Steele intesi come band non esistono più. Il processo compositivo è quasi completamente tastieristico, mentre chitarra ritmica e batteria sono ora per lo più un tappeto privo di groove che si limita ad accompagnare i brani, piuttosto che farne parte integrante. House Of Atreus esce in due parti (su tre CD) fra 1999 e 2000, per oltre due ore quaranta minuti di durata (e anche di più se aggiungiamo l’EP di intermezzo Magick Fire Music) infarcite di passaggi strumentali pianistici e parti semi-recitate. Un disastro senza capo nè coda? Tutt’altro: se si è disposti a passare sopra ai problemi di una produzione che stanca in fretta e se si ha la forza e la voglia di dedicarsi all’ascolto certamente non facile di un’opera che non si può non definire prolissa, The House Of Atreus si rivela un lavoro di una bellezza quasi disarmante. Quel respiro ampio  che mancava in Invictus torna a farla da padrone, le melodie hanno spesso dell’incredibile, DeFeis fa letteralmente ciò che vuole con la voce (interpretando alla perfezione sia i personaggi maschili che quelli femminili), Pursino regala altre delizie solistiche. Alla fine è difficile non restare folgorati dalla magia di pezzi come le dure Kingdom Of The FearlessWings Of Vengeance e Resurrection Day, o le sontuose Gate Of Kings (peraltro più bella nella versione acustica dell’EP), Moira e Child Of Desolation. Una nota particolare: quando emergono prepotemente alcuni temi musicali del concept precedente, viene svelata la sorpresa lasciata in serbo da DeFeis: la sua Orestea si inserisce nell’ambito della saga del Matrimonio, con Elettra a rappresentare una delle tante reincarnazioni di Emalaith… una scelta che, come immaginabile, dividerà le opinioni di chi parlerà di riciclaggio di idee (accuse rafforzate dalla riproposizione di brani incisi con Piledriver ed Exorcist, riadattati al concept) e di chi apprezzerà la bravura nel riproporre a sorpresa temi cari. House Of Atreus resta sicuramente un’opera controversa: a giudizio di chi scrive, bisogna davvero trovare la voglia di ascoltarla… ma, quando la si trova, si viene certamente ripagati!

HYMNS TO VICTORY/THE BOOK OF BURNING (2002)
VictoryburningIl prossimo passo nella carriera dei Virgin Steele non è un album di inediti, ma una doppia raccolta che esplora tutta la carriera della band in occasione del ventennale dal debutto. Hymns To Victory contiene soprattutto brani del periodo Pursino, con un’ottima scelta che include molti dei classici più famosi. Alcuni dei brani sono remixati o presentano nuove parti, ma non sempre il risultato è riuscito, come evidenziato dall’orribile doppia cassa sintetica in Crown Of Glory (Unscarred). Ci sono un paio di inediti, come l’acustica Mists Of Avalon e una Saturday Night che, col suo stile alla Kiss, stona completamente rispetto a tutto il resto (pur essendo, di per sè, un brano più che valido). Decisamente più interessante l’altra raccolta, incentrata su nuove versioni di brani dell’epoca Starr: all’epoca dell’uscita di The Book Of Burning DeFeis non era ancora riuscito a negoziare la ristampa dei primi due album (ci riuscirà poco dopo), e quindi questa era la prima occasione per ascoltare su CD grandi classici come Children Of The Storm, Don’t Say Goodbye (Tonight), The Redeemer, Guardians Of The Flame e A Cry In The Night (rifatta in una meravigliosa versione acustica). I rifacimenti sono rivisti alla luce delle più recenti scelte stilistiche (cosa che tende a togliere dinamismo ai brani) ma godono anche di un’interpretazione vocale ai massimi livelli di maturità ed espressività. Ci sono anche pezzi nuovi, scarti elaborati, e persino due nuovi brani a firma DeFeis / Starr, scritti nel 1997 in un tentativo di riavvicinamento fra i due (ma comunque suonati da Pursino come tutti gli altri di questa raccolta): spiccherebbe Hellfire Woman se non fosse per la solita, discutibile, batteria. Infine, una nota sulla formazione: da qualche anno si è unito alla band il giovane polistrumentista Joshua Block, generalmente impiegato dal vivo come bassista e in qualche sciagurato tour come secondo chitarrista, lasciando il ruolo scoperto; non ci è dato sapere, però, quanto effettivamente venga utilizzato in studio.

Pursino, Gilchriest, De Feis, Block
Pursino, Gilchriest, DeFeis, Block
VISIONS OF HEAVEN (2006)
VisionsDeFeis è sempre senza freni, ma ora comincia ad essere a corto anche di ispirazione. Quando esce Vision Of Heaven cadono in maniera decisa molte delle certezze che ancora circondavano i Virgin Steele. L’album, composto da undici lunghi(ssimi) brani finisce per risultare in fretta non solo difficile, ma semplicemente noioso. Buona parte dei brani si può riassumere come un tappeto ritmico di chitarra e doppia cassa su cui DeFeis canta e suona le tastiere, accompagnato da assoli suoi e di Pursino. Alcune melodie forti riescono a farsi valere, ma l’approccio sinfonico è molto più didascalico che in passato. Quando poi si riciclano del passato (vedi la strofa di Black Light On Black, identica a quella di Kingdom Of The Fearless) non c’è neanche più la giustificazione del concept unico a reggere. Se infine aggiungiamo che anche la voce comincia a mostrare segni di cedimento, con gli acuti in falsetto che iniziano ad apparire deboli e strozzati, ecco che il senso di tristezza comincia a prevalere. Non è tutto da buttare, sia chiaro: ci sono idee melodiche davvero meritevoli (un brano come God Above God riesce comunque ad avere del meraviglioso), e il compositore cerca di fare sì che il suo disco abbia un’identità propria nella discografia della band… ma, alla fine, prevale solo la noia. A complicarsi ulteriormente la vita, De Feis decide di mandare alla stampa un CD promozionale con un orribile mix provvisorio, cosa che contribuirà ad aumentare ulteriormente la quantità di stroncature: quando si dice “avere bisogno di un manager e un produttore che ti tengano a bada…”

THE BLACK LIGHT BACCANALIA (2010)
bacchanaliaIl nuovo disco è un altro lavoro prolisso e senza freni. I testi, continuano il discorso già intrapreso in Visions Of Heaven: un misto di mitologia e filosofia gnostica, ma sempre con un sano spirito heavy metal… e sono sicuramente la cosa migliore dell’album. Musicalmente siamo di fronte ad un disco decisamente più dinamico rispetto al precedente, e l’ascolto ne guadagna decisamente. In compenso crolla ulteriormente la performance vocale: DeFeis è sempre meraviglioso quando vuole e canta in maniera rilassata, ma i suoi acuti sono ormai spesso deboli ed irritanti; il cantante tende pure ad abusarne, esasperando anche quegli urletti e piccoli “ruggiti” che sono da tempo parte del suo stile, e che ora suonano più stucchevoli che mai. Il vecchio leone comincia ormai a suonare come uno stanco gattino lagnoso; una tendenza, questa, che si porterà anche dal vivo, dove distruggerà molti vecchi classici con dei falsetti davvero fastidiosi. E pensare che i concerti dei Virgin Steele erano sempre una grande esperienza! Difficile dire se siamo di fronte ad un passo avanti rispetto a Vision Of Heaven, ma resta la sensazione che con una batteria vera, uno studio di registrazione, e un produttore serio che tagli tutto ciò che è di troppo e dica a David come NON cantare, The Black Light Baccanalia avrebbe potuto essere un bel disco. Invece abbiamo una serie di brani dal gran potenziale – come la titletrack, By The Hammer Of Zeus (And The Wrecking Ball Of Thor) e la melodica Eternal Regret – espresso, però, in maniera maldestra e noiosa.

NOCTURNES OF HELLFIRE & DAMNATION (2015)
NocturnesPer il nuovo disco, DeFeis decide di non volere più far finta di avere bisogno di un batterista, e dice al povero Frank Gilchriest che userà una drum machine. Frank,  che già nell’ultimo periodo era molto sottoutilizzato (David trova più redditizio fare concerti acustici, durante i quali può massacrare i classici miagolando accompagnato da piano e chitarra), dice grazie e a non rivederci. Il nuovo album è fondamentalmente un riassunto degli ultimi anni della band: per qualche motivo, forse perché Pursino sembra piu coinvolto che in passato, il disco risulta piuttosto digeribile, nonostante un DeFeis spesso davvero irritante nel cantato. Restano però anche tutti i difetti dell’ultimo periodo, prolissità e produzione in primis. La bluesy Demolition Queen, quasi un ritorno a Life Among The Ruins, è una delle cose migliori del disco, così come l’opener Lucifer’s Hammer. Discutibili, invece, i due ripescaggi degli Exorcist, perché senza lo spirito becero e cazzone con cui i brani erano stati incise originariamenti diventano terribilmente noiosi. Siamo alla fine per ora, ma non dobbiamo preoccuparci: DeFeis ha già detto di avere altri tre album pronti. Qualcuno gli dica qualcosa!


APPENDICE: EXORCIST
NIGHTMARE THEATER (1986)

ExorcistCome spiegato precedentemente, problemi finanziari costrinsero negli anni ’80 DeFeis e Pursino ad accettare lavori in semi-incognito, per riuscire a pagare i debiti dei Virgin Steele. Il fenomeno della metalxplotation fu quello che vide la pubblicazione di album registrati a budget zero da band spesso fittizie per sfruttare le mode del momento. Gli Exorcist erano stati assemblati come band thrash metal, con DeFeis e Pursino a scrivere tutto il materiale e David stesso alla produzione. Al momento di andare in studio, però, la band si sfaldò, e i due furono costretti a registrare, in soli tre giorni, l’intero album con il batterista Mark Edwards. Il disco è un lavoro decisamente figo di validissimo thrash orrorifico, anche inquadrabile come proto-black metal: DeFeis canta come un incrocio fra Chronos e Lemmy e si cimenta in testi becerissimi di stampo satanista, mentre il chitarrista tira fuori riff serratissimi e assoli sporchissimi, con risultati magistrali. Pezzi come Black Mass, Possessed, Queen Of The Dead e Lucifer’s Lament sono dei classici minori del genere. Alcuni brani di questo album sono poi finiti, in forma più o meno riadattata, su diversi album della band madre, ma, in verità, l’esperimento è riuscito solo su The House Of Atreus. Nel complesso, un disco decisamente valido e speciale, anche se distante da quello che ci si aspetta da DeFeis e Pursino!


SPIRITUAL BEGGARS – 20 anni di album in studio

Spiritual Beggars

Gli Spiritual Beggars nascono ad Halmstad nel 1993 come valvola di sfogo del chitarrista Michael Amott (Carnage, Carcass, Arch Enemy), desideroso di mettere temporaneamente da parte il death metal per concentrarsi su un rock duro figlio di band come Mountain, Black Sabbath e Deep Purple.
Pur con molte pause, dovute al successo delle altre band del chitarrista anglo-svedese, i Beggars sono arrivati al 2014 mettendo in fila otto album in studio, fra hard rock, psichedelia pesante e stoner. Nel ventesimo anniversario dall’uscita del primo lavoro, ci piace l’idea di ripercorrerne le gesta!

La formazione originale
La formazione originale

Spiritual Beggars (1994)
“Alcohol becomes my saviour”
Il disco di debutto vede la band composta da Amott con il cantante/bassista Christian “Spice” Sjöstrand e il batterista Ludwig Witt.
Il songwriting della band è forse ancora acerbo, ma i riff pesanti, gli assoli a metà fra Schenker e Iommi, le improvvise escursioni jazzy e la voce calda e roca sono già elementi determinanti. Manca ancora l’hammond, che invece avrà un ruolo determinante in futuro, e questo fatto lascia oggi, a riascoltare brani come Yearly Dying o la bluesy Magnificent Obsession, una certa sensazione di vuoto. Poco importa: Michael suona che è una meraviglia, Spice incanta, e l’unione fra la chitarra, il basso cavernoso e una batteria à la Bill Ward funziona già alla grande.

Another Way To Shine (1996)
“Outside I see that snow has begun to fall / And it reminds me of you”
Con il secondo lavoro, i Beggars confermano di essere sulla strada giusta: lo stile è un violento muro di suono che fonde Black Sabbath, Mountain, Blue Cheer e primi Motörhead, graziato dalle capacità solistiche di un Amott stellare e da una voce espressiva e affascinante. I testi parlano di depressione alcolica, donne stronze e viaggi onirici, creando affreschi suggestivi. Brani come l’euforica Magic Spell, la sabbathiana Blind Mountain e la sinuosa titletrack concorrono a formare un signor disco e dimostrano il valore di un gruppo che sta per fare il salto di qualità definitivo. A questo punto, la band vanta un seguito soprattutto in Giappone, mentre viene inserita dalla critica, a torto o a ragione, nel grande calderone di una scena stoner rock in gran fermento.

Mantra III (1998)
“But I feel fine today ‘cause I’ve got friends inside my head…”
È con il terzo disco che la band centra il suo album capolavoro: Mantra III vede infatti il trio mettere tutto completamente a fuoco, con un grande songwriting ed esecuzioni spettacolari. Hammond e mellotron (per cortesia dell’ospite Per Wiberg) cominciano ad avere un ruolo determinante, mentre si insinuano influenze derivate da Deep Purple, Doors e dal desert rock (Inside Charmer). La doomy Euphoria è probabilmente il brano più grande scritto dalla band, la violenta Homage To The Betrayed scatena l’headbanging più selvaggio e la purpleiana Send Me A Smile contribuiscono a fare di Mantra III un caposaldo sottovalutato dell’hard rock moderno.

Ad Astra (2000)
“Bring me a dog or a loaded gun / I’m fed up with all the people around”
Il quarto album vede completare la mutazione della band nella sua prima fase. Per Wiberg (in seguito anche negli Opeth) si unisce ora ai Beggars in qualità di membro stabile, aggiungendo il suo organo infuocato à la Ken Hensley ad una miscela già esplosiva. Ma chi temeva un alleggerimento può stare tranquillo: il suono del neo-quartetto si fa ancora più massiccio e compatto. Forse anche troppo! La produzione è più metallica e satura che in passato, e toglie probabilmente troppo respiro all’ascolto. Il sound della band perde parte dell’anima lisergica per avvicinarsi ad un punto di fusione fra Black Sabbath, Deep Purple e Uriah Heep rielaborati in chiave più violenta e moderna. I brani sono comunque stellari, e pezzi come l’opener Left Brain Ambassador, una Angel Of Betrayal di chiara matrice heepesca e l’intensa ballad Mantra sono fra le cose migliori di un album di altissimo livello.

I Beggars sono ora ad un momento critico, quello del “o ora o mai più”. L’investimento c’è sicuramente, anche in termini di qualità, e ora la band è piuttosto conosciuta anche in Europa, ma il vero botto non avviene, e un pubblico più vasto tarda a vedersi. Qualcosa si guasta nei rapporti personali: nelle interviste del tour, Amott e Wiberg si dimostrano piuttosto freddi e scazzati nei confronti di Spice. È la fine di un’era.

Arriva JB
Arriva JB

On Fire (2002)
I am the clown in the mirror / the part of you you hate
Nel giro di due anni le cose sono cambiate parecchio per Michael Amott: i Beggars non sono riusciti ad imporsi, ma la sua band death metal, gli Arch Enemy, ha iniziato a conquistare pubblico con l’arrivo della bionda Angela Gossow. Sulla scia del successo di Wages Of Sin il chitarrista prova a rilanciare anche il suo gruppo hard rock: alla voce viene reclutato il semisconosciuto Janne “JB” Christoffersson, che ha da poco pubblicato il debutto doom dei suoi Grand Magus, mentre al basso, in prestito dai The Quill, arriva Roger Nilsson. La vociona cupa ed epica di JB è una sorpresa piacevolissima: diversa al punto giusto da quella del suo predecessore ma in grado comunque di garantire continuità stilistica. Amott prende in mano anche la scrittura dei testi, che si fanno ora più vari, ma anche meno affascinanti, rispetto a quelli di Spice. Dal punto di vista stilistico la band continua a proporre una rilettura moderna di Purple, Sabbath e Heep, forse in maniera più formale che in passato, ma comunque di alto livello. L’opener Street Fighting Saviours, l’orecchiabile Killing Time e la vibrante Dance Of The Dragon King testimoniano il valore di un ottimo lavoro.

Demons (2005)
Thought it’d last forever / How sad and naive
Anche On Fire non è riuscito ad imporre veramente i Beggars, oramai diventati a tutti gli effetti un side-project, ma la band esce comunque con un nuovo disco, forse anche solo per soddisfare le richieste del pubblico giapponese. Il quintetto si rinnova con l’arrivo di Sharlee D’Angelo (Mercyful Fate, Arch Enemy) al basso, cosa che restituisce un suono più d’impatto rispetto a quanto sentito con il più raffinato Nilsson. Lo stile della band si avvicina più che mai al proto-metal, spostando le coordinate temporali di riferimento verso la fine degli anni ’70: gli assoli si fanno meno acidi e più melodici, e il cantato ha una vena più epica. Demons è anche migliore del predecessore, anche se entrambi i dischi tendono ad essere meno longevi rispetto al materiale del periodo Spice. Fra i brani non possiamo non segnalare l’energica Throwing Your Life Away, la diretta One Man Army e l’intensa Through The Halls.

L'era di Apollo
L’era di Apollo

Return To Zero (2010)
The choice you made is yours to live / The bridge you burnt is yours to keep
Ci vogliono ben cinque anni prima che Amott, preso dal successo degli Arch Enemy e dalla reunion dei Carcass, riesca a trovare del tempo da dedicare alla sua creatura hard rock. Nel frattempo se ne è andato JB, assorbito dalla carriera dei Grand Magus e rimpiazzato da Apollo Papathanasio dei Firebird. Il nuovo cantante, tecnicamente bravissimo, sposta inevitabilmente le coordinate stilistiche della band: la sua voce acuta tende ad avvicinarla infatti al retro-hard rock di ultima generazione, finendo quasi per stravolgerne l’identità originaria. Dal punto di vista musicale, Return To Zero è un disco sempre più vicino all’heavy metal melodico: la cosa non sarebbe certamente un problema se non fosse che la vena compositiva di Amott, come già negli Arch Enemy, si è nel frattempo decisamente inaridita. Fra le cose migliori troviamo l’articolata The Chaos Of Rebirth (che incrocia i Judas Priest agli Scorpions del periodo Roth), la ruffiana We Are Free e una Spirit Of The Wind in cui la versatilità di Apollo viene sfruttata al meglio: l’album cresce con gli ascolti e alcune sequenze solistiche sono spettacolari ma, dopo cinque anni di attesa, è comunque un disco stanco e deludente.

Earth Blues (2013)
I see a black dawn rising / Can we turn the tide?
Quando ormai li davamo per persi, gli Spiritual Beggars si rimettono in carreggiata. Earth Blues non è forse un disco memorabile, ma le cose funzionano decisamente meglio che nel lavoro precedente: Apollo è meglio integrato e più a suo agio, e la band recupera qualcosa in termini di compattezza e messa a fuoco; il sound si rifà più viscerale, settantiano e diretto. Alla vecchia guardia dei fan mancheranno comunque il lirismo lisergico e lo spirito animale dell’epoca Spice, ma i Beggars di oggi dimostrano di essere ancora vivi: la sensuale Turn The Tide, la desertica Wise As A Serpent e la melodica Sweet Magic Pain stanno qui a ribadirlo!

The Jeff Healey Band, una retrospettiva

Dal punto di vista metallaro Jeff Healey si colloca nel filone dei virtuosi della chitarra, gente del calibro di Joe Satriani, Tony MacAlpine o anche il primo Yngwie Malmsteen. Tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta questi musicisti fecero uscire una riga di album in cui il protagonista principale era l’assolo di chitarra, al punto che molti rinunciarono del tutto ad arruolare un cantante e fecero uscire album strumentali. I lavori più riusciti passarono comunque alla storia del genere, e sono tuttora considerati album importanti, per un unico semplice motivo: il connnubio fra la difficoltà di esecuzione e la facilità dell’ascolto.

Ma la Jeff Healey Band rimane comunque un capitolo a parte, sia perché proponeva comunque sonorità a cavallo tra Blues e Hard Rock sia perché la sensibilità musicale del chitarrista Canadese non fu mai facilmente catalogabile. Cieco fin da piccolo, Jeff suonava la chitarra tenendola appoggiata sulle ginocchia in orizzontale e questo conferiva al suo stile un carattere unico, oltre che rappresentare un tratto saliente della sua immagine.

Il periodo d’oro del gruppo furono i quattro anni tra il 1990 e il 1994, durante i quali realizzarono due album e raggiunsero vette di successo planetario. Jeff Healey era affiancato da Joe Rockman al basso e Tom Stephen alla batteria ma il protagonista assoluto era lui, sia con la chitarra che con la sua voce calda e pulita.

See the Light (1988)L’album di debutto, See The Light del 1988 , fu accolto abbastanza bene dai fan del metallo, aiutato anche da buone recensioni sulla stampa del genere. Personalmente fu la mia prima escursione in territori per così dire alieni, e senza dubbio all’epoca aprì le porte del Blues per molti adolescenti metallari come me. Tra i brani più riusciti segnalo Confidence Man, River of No Return e la ballad Angel Eyes.

Hell To Pay (1990)Il successo vero arrivò con il secondo album, Hell to Pay del 1990, che proponeva sonorità più vicine all’Hard Rock ed aveva per questo più potenziale commerciale. Per i metallari fu l’album della conferma: la Jeff Healey Band sapeva essere pesante! Tra i brani migliori una cover di While My Guitar Gently Weeps dei Beatles da brividi per cui fu realizzato anche un videoclip.

Feel This (1992)Nel 1992 uscì anche Feel This a completare un tris di album memorabile. Questa volta il salto evolutivo fu rappresentato da una produzione molto più patinata, in linea col gusto radiofonico dell’epoca. Purtroppo però nel 1992 certe sonorità cominciavano a passare di moda grazie all’avvento del Grunge e forse per questo l’album non riuscì a ripetere lo stesso risultato di vendite del precedente.

Negli anni successivi la Jeff Healey Band realizzò altri due album, Cover to Cover del 1995 e Get Me Some del 2000, ma a quel punto il grande pubblico non era più interessato. Jeff cominciò così a dedicarsi ad altro: imparò a suonare la tromba e mise insieme una band puramente Jazz, abbandonando completamente l’Hard Rock. Nel 2005 pubblicò l’album dal vivo Live at Montreaux con materiale del 1999, e quello fu l’ultimo capitolo per la Band.

Jeff Healey è morto nel Marzo del 2008 all’età di 41 anni a causa di un tumore. La moglie ne porta tutt’ora avanti il ricordo, gestendo il blog ufficiale, dove si trovano anche registrazioni video di concerti memorabili come ad esempio una apparizione al Pistoia Blues Festival del 1990 al fianco di BB King e Edoardo Bennato.

SATAN (aka Blind Fury aka Pariah) : una mini biografia

I Satan prendono vita nel 1979 a Newcastle Upon Tyne e la prima formazione comprendeva i chitarristi Russ Tippins e Steve Ramsey, il cantante Andrew Frepp, il bassista Steven Bee e il batterista Andy Reed. Bee viene subito rimpiazzato al basso da Graeme ‘Bean’ English e Steve Allsop prende il posto di cantante. Con questa formazione registrano il primo demo di quattro brani che esce nel novembre del 1981. Subito dopo altro cambio di cantante con l’ingresso di Trevor Robison ma dura poco.
Reed viene rimpiazzato alla batteria da Ian McCormack ed insieme al nuovo cantante Ian Davison-Swift il gruppo registra il demo Into the Fire nel Novembre 1982. Anche McCormack non dura molto, va a suonare nei Battleaxe e viene sostituito dall’ex Raven Sean Taylor. dopo quest’ennesimo cambio di formazione registrano il singolo Kiss Of Death, comprendente due brani dal primo demo ( le restanti due tracce finiranno sulla raccolta Roxcalibur pubblicata dalla Legend nel 1982).
Il cantante Davison-Swift rimane nel gruppo fino a poco prima delle registrazioni dell’album di debutto Caught in the act, un capolavoro di proto speed-metal baciato da uno spettacolare lavoro delle due chitarre, e il suo posto viene preso da Brian Ross ex Blitzkrieg e Avenger. Purtroppo anche Ross ha vita breve e viene allontanato adducendo come causa la sua mancanza di carisma dal vivo.
Questo continuo cambio di formazioni e’ stato il principale freno alla carriera dei Satan oltre all’ associazione, grazie al nome, col mondo dell’occulto con cui in realtà non avevano nulla a che fare. e’ per questo motivo che decidono di cambiare nome in Blind Fury e di pubblicare un disco come Out of reach dal taglio decisamente più commerciale, il tutto con il nuovo cantante Lou Taylor. Il tentativo però non ha fortuna ed il gruppo e’ costretto a ritornare sui suoi passi, quindi ripresa del nome Satan ed ennesimo cambio con Micheal Jackson alla voce (ovviamente nessuna relazione con la famosa popstar!!) Nel 1987 pubblicano Suspended Sentence, album che viene promosso con un doppio tour a fianco dei Running Wild nei mesi di Aprile e Ottobre del 1987. il nome però continua a creare problemi ed allora decidono di cambiarlo in Pariah. La mossa si rivela azzeccata tanto che i due dischi The kindred del 1988 e Blaze of Obscurity del 1989 otterranno un grosso successo soprattutto a livello europeo, successo testimoniato anche dai Blind Guardian che registrano una cover di Trial By Fire dei Satan come bonus del disco Somewhere far beyond. La sfortuna pero’ continua ad accanirsi sul gruppo e problemi economici con l’etichetta porteranno ad uno stop fino al 1998 anno in cui esce The unity grazie anche al rinnovato interesse in quel periodo per la Nwobhm. Questa pausa forzata porto’ il duo English e Ramsey a collaborare con l’ex cantante dei Sabbat Martin Walkyier e a formare gli Skyclad, ma questa e’ un altra storia Voci di reunion della formazione di Caught in the Act si sono susseguite per tutti gli anni 90 ma e’ solo nel 2004 che il trio Ross- English-Ramsey si riunisce per uno concerto al festival di Wacken ed uno al keep it true del 2005.
Il rinnovato interesse per i gruppi di culto del metal classico anni 80 tiene tutto’ora in vita i Satan, i quali hanno pubblicato l’anno scorso il bellisimo Life Sentence degno successore di Caught in the Act e finito fra i dischi migliori dell’anno degli appassionati.

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