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SPIRITUAL BEGGARS – 20 anni di album in studio

Spiritual Beggars

Gli Spiritual Beggars nascono ad Halmstad nel 1993 come valvola di sfogo del chitarrista Michael Amott (Carnage, Carcass, Arch Enemy), desideroso di mettere temporaneamente da parte il death metal per concentrarsi su un rock duro figlio di band come Mountain, Black Sabbath e Deep Purple.
Pur con molte pause, dovute al successo delle altre band del chitarrista anglo-svedese, i Beggars sono arrivati al 2014 mettendo in fila otto album in studio, fra hard rock, psichedelia pesante e stoner. Nel ventesimo anniversario dall’uscita del primo lavoro, ci piace l’idea di ripercorrerne le gesta!

La formazione originale
La formazione originale

Spiritual Beggars (1994)
“Alcohol becomes my saviour”
Il disco di debutto vede la band composta da Amott con il cantante/bassista Christian “Spice” Sjöstrand e il batterista Ludwig Witt.
Il songwriting della band è forse ancora acerbo, ma i riff pesanti, gli assoli a metà fra Schenker e Iommi, le improvvise escursioni jazzy e la voce calda e roca sono già elementi determinanti. Manca ancora l’hammond, che invece avrà un ruolo determinante in futuro, e questo fatto lascia oggi, a riascoltare brani come Yearly Dying o la bluesy Magnificent Obsession, una certa sensazione di vuoto. Poco importa: Michael suona che è una meraviglia, Spice incanta, e l’unione fra la chitarra, il basso cavernoso e una batteria à la Bill Ward funziona già alla grande.

Another Way To Shine (1996)
“Outside I see that snow has begun to fall / And it reminds me of you”
Con il secondo lavoro, i Beggars confermano di essere sulla strada giusta: lo stile è un violento muro di suono che fonde Black Sabbath, Mountain, Blue Cheer e primi Motörhead, graziato dalle capacità solistiche di un Amott stellare e da una voce espressiva e affascinante. I testi parlano di depressione alcolica, donne stronze e viaggi onirici, creando affreschi suggestivi. Brani come l’euforica Magic Spell, la sabbathiana Blind Mountain e la sinuosa titletrack concorrono a formare un signor disco e dimostrano il valore di un gruppo che sta per fare il salto di qualità definitivo. A questo punto, la band vanta un seguito soprattutto in Giappone, mentre viene inserita dalla critica, a torto o a ragione, nel grande calderone di una scena stoner rock in gran fermento.

Mantra III (1998)
“But I feel fine today ‘cause I’ve got friends inside my head…”
È con il terzo disco che la band centra il suo album capolavoro: Mantra III vede infatti il trio mettere tutto completamente a fuoco, con un grande songwriting ed esecuzioni spettacolari. Hammond e mellotron (per cortesia dell’ospite Per Wiberg) cominciano ad avere un ruolo determinante, mentre si insinuano influenze derivate da Deep Purple, Doors e dal desert rock (Inside Charmer). La doomy Euphoria è probabilmente il brano più grande scritto dalla band, la violenta Homage To The Betrayed scatena l’headbanging più selvaggio e la purpleiana Send Me A Smile contribuiscono a fare di Mantra III un caposaldo sottovalutato dell’hard rock moderno.

Ad Astra (2000)
“Bring me a dog or a loaded gun / I’m fed up with all the people around”
Il quarto album vede completare la mutazione della band nella sua prima fase. Per Wiberg (in seguito anche negli Opeth) si unisce ora ai Beggars in qualità di membro stabile, aggiungendo il suo organo infuocato à la Ken Hensley ad una miscela già esplosiva. Ma chi temeva un alleggerimento può stare tranquillo: il suono del neo-quartetto si fa ancora più massiccio e compatto. Forse anche troppo! La produzione è più metallica e satura che in passato, e toglie probabilmente troppo respiro all’ascolto. Il sound della band perde parte dell’anima lisergica per avvicinarsi ad un punto di fusione fra Black Sabbath, Deep Purple e Uriah Heep rielaborati in chiave più violenta e moderna. I brani sono comunque stellari, e pezzi come l’opener Left Brain Ambassador, una Angel Of Betrayal di chiara matrice heepesca e l’intensa ballad Mantra sono fra le cose migliori di un album di altissimo livello.

I Beggars sono ora ad un momento critico, quello del “o ora o mai più”. L’investimento c’è sicuramente, anche in termini di qualità, e ora la band è piuttosto conosciuta anche in Europa, ma il vero botto non avviene, e un pubblico più vasto tarda a vedersi. Qualcosa si guasta nei rapporti personali: nelle interviste del tour, Amott e Wiberg si dimostrano piuttosto freddi e scazzati nei confronti di Spice. È la fine di un’era.

Arriva JB
Arriva JB

On Fire (2002)
I am the clown in the mirror / the part of you you hate
Nel giro di due anni le cose sono cambiate parecchio per Michael Amott: i Beggars non sono riusciti ad imporsi, ma la sua band death metal, gli Arch Enemy, ha iniziato a conquistare pubblico con l’arrivo della bionda Angela Gossow. Sulla scia del successo di Wages Of Sin il chitarrista prova a rilanciare anche il suo gruppo hard rock: alla voce viene reclutato il semisconosciuto Janne “JB” Christoffersson, che ha da poco pubblicato il debutto doom dei suoi Grand Magus, mentre al basso, in prestito dai The Quill, arriva Roger Nilsson. La vociona cupa ed epica di JB è una sorpresa piacevolissima: diversa al punto giusto da quella del suo predecessore ma in grado comunque di garantire continuità stilistica. Amott prende in mano anche la scrittura dei testi, che si fanno ora più vari, ma anche meno affascinanti, rispetto a quelli di Spice. Dal punto di vista stilistico la band continua a proporre una rilettura moderna di Purple, Sabbath e Heep, forse in maniera più formale che in passato, ma comunque di alto livello. L’opener Street Fighting Saviours, l’orecchiabile Killing Time e la vibrante Dance Of The Dragon King testimoniano il valore di un ottimo lavoro.

Demons (2005)
Thought it’d last forever / How sad and naive
Anche On Fire non è riuscito ad imporre veramente i Beggars, oramai diventati a tutti gli effetti un side-project, ma la band esce comunque con un nuovo disco, forse anche solo per soddisfare le richieste del pubblico giapponese. Il quintetto si rinnova con l’arrivo di Sharlee D’Angelo (Mercyful Fate, Arch Enemy) al basso, cosa che restituisce un suono più d’impatto rispetto a quanto sentito con il più raffinato Nilsson. Lo stile della band si avvicina più che mai al proto-metal, spostando le coordinate temporali di riferimento verso la fine degli anni ’70: gli assoli si fanno meno acidi e più melodici, e il cantato ha una vena più epica. Demons è anche migliore del predecessore, anche se entrambi i dischi tendono ad essere meno longevi rispetto al materiale del periodo Spice. Fra i brani non possiamo non segnalare l’energica Throwing Your Life Away, la diretta One Man Army e l’intensa Through The Halls.

L'era di Apollo
L’era di Apollo

Return To Zero (2010)
The choice you made is yours to live / The bridge you burnt is yours to keep
Ci vogliono ben cinque anni prima che Amott, preso dal successo degli Arch Enemy e dalla reunion dei Carcass, riesca a trovare del tempo da dedicare alla sua creatura hard rock. Nel frattempo se ne è andato JB, assorbito dalla carriera dei Grand Magus e rimpiazzato da Apollo Papathanasio dei Firebird. Il nuovo cantante, tecnicamente bravissimo, sposta inevitabilmente le coordinate stilistiche della band: la sua voce acuta tende ad avvicinarla infatti al retro-hard rock di ultima generazione, finendo quasi per stravolgerne l’identità originaria. Dal punto di vista musicale, Return To Zero è un disco sempre più vicino all’heavy metal melodico: la cosa non sarebbe certamente un problema se non fosse che la vena compositiva di Amott, come già negli Arch Enemy, si è nel frattempo decisamente inaridita. Fra le cose migliori troviamo l’articolata The Chaos Of Rebirth (che incrocia i Judas Priest agli Scorpions del periodo Roth), la ruffiana We Are Free e una Spirit Of The Wind in cui la versatilità di Apollo viene sfruttata al meglio: l’album cresce con gli ascolti e alcune sequenze solistiche sono spettacolari ma, dopo cinque anni di attesa, è comunque un disco stanco e deludente.

Earth Blues (2013)
I see a black dawn rising / Can we turn the tide?
Quando ormai li davamo per persi, gli Spiritual Beggars si rimettono in carreggiata. Earth Blues non è forse un disco memorabile, ma le cose funzionano decisamente meglio che nel lavoro precedente: Apollo è meglio integrato e più a suo agio, e la band recupera qualcosa in termini di compattezza e messa a fuoco; il sound si rifà più viscerale, settantiano e diretto. Alla vecchia guardia dei fan mancheranno comunque il lirismo lisergico e lo spirito animale dell’epoca Spice, ma i Beggars di oggi dimostrano di essere ancora vivi: la sensuale Turn The Tide, la desertica Wise As A Serpent e la melodica Sweet Magic Pain stanno qui a ribadirlo!