Capita talvolta che gli amici mi chiedano: “ma perché i tuoi vinili sono in giapponese”?

Da quando ho ricominciato ad acquistare vinili, ho infatti sviluppato la passione per un mondo di cui sentivo raccontare dai miei conoscenti collezionisti una trentina d’anni fa: le edizioni del Sol Levante.
Ma perché questi vinili sono così pregiati?
La storia è semplice: nel secondo dopoguerra, l’industria dello sconfitto Giappone cercò di sopravvivere come poteva, puntando soprattutto sulla concorrenzialità a basso costo, per prodotti di scarsa qualità e di poco pregio.
Fino agli anni ‘60, un oggetto tecnologico. “Made in Japan” era l’equivalente di un moderno “comprato su Wish”. Un marchio di ignominia per un paese che, sotto la coltre. della vergogna post-bellica, covava un forte senso di rivincita nazionale.
Nel corso degli anni ‘60, questo senso portò ad un vero e proprio colpo d’orgoglio: il Giappone decise che sarebbe diventato il paese dell’eccellenza tecnologia, e passò in tempi brevi dalle parole ai fatti.
Quelli che, come me, appartengono alla Generazione X, sono cresciuti sicuramente con il mito del Giappone all’avanguardia, dei gingilli incredibili (il Camcorder!) e nuove tecnologie che noi ci sognavano (il laser-disc!). Oltre che, ovviamente, dei robottoni animati… ma questo è un altro discorso che oggi non ci riguarda.

Torniamo quindi agli anni ‘60! So già che molti di voi avranno capito che il discorso di cui sopra avrà coinvolto in qualche modo anche l’industria discografica… ed è esattamente così.
A partire da quel decennio, le etichette giapponesi decisero che anche loro avrebbero iniziato a produrre prodotti di alta fascia e qualità ineguagliabile:
- loro non avrebbero utilizzato materiale riciclato per i dischi, ma solo vinile vergine di altissima qualità e ad alta grammatura;
- la copertina e gli inserti sarebbero stati fatte con i materiali migliori, senza badare ai costi;
- il processo di mastering sarebbe stato molto preciso e curato, al fine di ottenere un risultato più simile possibile a quello delle bobine dei master di studio;
- le matrici di stampa utilizzate per le presse dei vinili sarebbero state di materiale pregiato e cambiate frequentemente, evitando il fenomeno causato dall’usura per cui, dopo un certo numero di copie, le stampe cominciavano a suonare peggio.
Tutto ciò fece delle edizioni giapponesi il paradiso degli audiofili. I vinili provenienti dal Sol Levante non gracchiavano, avevano un suono spettacolare, non c’era il rischio di distorsioni e di salti della puntina… insomma, erano il modo migliore di godersi la musica!
Per un certo periodo negli anni ‘60, si sperimentò anche con un nuovo tipo di vinile rosso antistatico (everclean) che prometteva di mantenersi sempre privo di polvere. Diversi album uscirono in entrambi i formati (vinile classico e rosso) e l’acquirente poteva scegliere quale comprare. L’esperimento fu abbandonato quando ci si rese conto che questi vinili tendevano ad essere meno longevi… ma ancora adesso i vinili rossi sono molto ricercati dai collezionisti.
La qualità costa, e le case discografiche ricompensavano i loro acquirenti, che dovevano sostenere spese piuttosto alte, offrendo edizioni molto curate, che contenevano inserti con articoli giornalistici, testi delle canzoni (spesso assenti nelle edizioni europee e americane), se non poster e addirittura ammennicoli vari (come negativi di foto o collane).
Un discorso a parte merita l’obi, la “cintura” di carta con le scritte in giapponese che fasciava gli album (o la parte sinistra delle edizioni gatefold, ovvero quelle in due parti apribili a libretto): quella striscia spiegava ai molti appassionati che non sapevano leggere i caratteri occidentali chi fosse la band, il titolo dell’album, magari con l’aggiunta di qualche strillo pubblicitario. Alcuni obi erano belli e ben studiati, altri un orribile pugno nell’occhio che cozzava terribilmente con la copertina. Fatto sta che oggi l’obi è determinante per stabilire il valore di un album d’epoca: la striscia era fragile, a molti dava fastidio, e spesso veniva eliminata senza troppi rimpianti. Oggi, solo un disco che lo conservi mantiene il pieno valore collezionistico, e molti rifiutano di comprare vinili giapponesi d’epoca senza obi. D’altro canto, acquistare un album “Made in Japan” privo della fascetta è un modo per godere di tutti i pregi qualitativi delle edizioni giapponesi ad un prezzo spesso stracciato.

Quello di Rising fa a pugni con la splendida copertina, quello di Strangers In The Night vi si integra perfettamente.
Come in tutto il resto del mondo, il mercato discografico giapponese fu, negli anni ‘80, sconvolto dall’arrivo del compact disc. Anzi, è proprio in Giappone che la tecnologia debuttò. Ovunque le case discografiche cominciarono ad investire nel nuovo formato, trascurando volontariamente sempre di più il vecchio per convincere gli ascoltatori alla transizione. Anche i vinili giapponesi risentirono del vento del cambiamento, anche se c’è da dire che non ci fu il crollo qualitativo sostanziale che ci fu negli Stati Uniti e in Europa. Calò la grammatura media, magari si fece sempre meno ricorso al formato gatefold, ma la qualità giapponese era sempre elevata. Intorno al 1988/89, l’industria nipponica, con qualche anno in anticipo rispetto al resto del pianeta, disse basta. Piuttosto che abbassare ulteriormente la qualità, e grazie anche all’alto livello di adozione della nuova tecnologia, il Sol Levante cessò, di fatto, la produzione degli album in vinile. Mentre nel resto del mondo si producevano ormai, per lo più, dischi scarsi di plastica riciclata, senza attenzione ad un mastering dedicato, propensi alla gracchiatura e al rumore di fondo, a Tokyo e dintorni si preferì smettere con dignità.

La cura giapponese del vinile fu trasposta appieno nei compact disc, che continuarono ad avere la qualità migliore, mastering ben curati, inserti vari e (in alcuni casi) persino l’obi, ormai ridotto ad una piccola striscia di carta senza più il fascino della versione classica. Una delle caratteristiche tipiche dei cd giapponese divenne la “bonus track”, il pezzo aggiuntivo per il solo mercato locale messo lì apposta per convincere gli appassionati a non importare cd da Europa o Stati Uniti a prezzi più bassi. Inutile dire che queste bonus track causarono il fenomeno inverso, per cui i CD giapponesi venivano importati nel resto del mondo da quei fan che non volevano perdersi nessun brano dei loro artisti preferiti.

Il grande revival del vinile che, negli ultimi 15 anni, ha visto la rinascita del formato ha coinvolto solo di striscio il Giappone e soprattutto a livello di produzioni locali. Anche se la Sony ha annunciato nel 2017 l’avvio della stampa in proprio a Tokyo, non ho visto, almeno per le cose che mi interessano, un risorgere di obi ed edizioni particolari “Made In Japan”.
Poco importa, perché quello che conta è il fascino delle edizioni d’annata. Si trovano facilmente, dato che all’epoca la tiratura degli album era elevata, a fiere o su siti come come Discogs, Ebay o Tradera. Personalmente ho una fortuna: salvo qualche eccezione, le cose che più mi piacciono hanno costi assolutamente accessibili, soprattutto se si ha la pazienza di aspettare quell’occasione giusta che, prima o poi, arriva. Alla fine non si spende molto più che a comprare una ristampa recente, e sicuramente ne esci ricompensato: i dischi non solo sono ancora facilmente in circolazione, ma spesso sono in condizioni ottime (per evitare sorprese esistono sigle per catalogarle) e suonano ancora divinamente. Qualcuno dirà “meglio dei cd”, e probabilmente c’è anche una buona dose di autoconvinzione ed effetto placebo… però posso dire che quando metto su le mie copie di Live In Japan dei Deep Purple o Strangers In The Night degli UFO godo davvero non poco!