Scott Gorham è stato una sorta di capitano in seconda dei Thin Lizzy. E’ pure un uomo serio, rispettoso al punto di non usarne il nome. Umanamente, non possiamo volergli male, ma nemmeno perdonargli il fatto che i suoi Black Star Riders abbiano già pubblicato due fiaschi su due. Tutti i particolari del Lizzy-sound sono lì, lucidati ed esposti in una camera stagna dalle pareti trasparenti. Come dire che c’è la vena del cantastorie à la Bob Seger, l’epica protometal, l’influenza folk, quella southern (quelle soul e funk, complice la voce di Warwick e una ritmica troppo quadrata, mancano del tutto), ma ci sono perché ci devono essere, senza che l’amalgama vada oltre una ripetizione meccanica dell’immagine mentale cristallizzata nelle menti dei rocker di tutto il mondo. Nemmeno paragonati alla media delle uscite in giro i Black Star Riders riescono a rimediare una bella figura, perché sembrano una band tedesca buona per un palco secondario del Wacken. Phil Lynott è morto e i Thin Lizzy con lui. Un’action figure, perché questo sono i Black Star Riders, non potrà mai essere all’altezza. Complimenti.
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MASTODON@Fabrique, Milano, 10/12/2014
Il Fabrique è un nuovo locale di Milano destinato ad accogliere eventi musicali e mondani di vario tipo. Ricavato da un ex impianto tessile, vanta un’acustica niente male e sconta la presenza di un paio di colonne portanti che, certamente, non aiutano la visuale. Sia come sia, è proprio il Fabrique ad ospitare la calata milanese dei Mastodon, accompagnati da Krokodil e Big Business. Sono proprio i Krokodil ad aprire la serata: formati da membri di Sikth e Gallows, i sei inglesi picchiano come disgraziati ripercorrendo un po’ la scia di sottovalutate formazioni hardcore connazionali degli anni ’00 – Earthtone9 (da cui mutuano pure certe aperture melodiche), Raging Speedhorn, Medulla Nocte. Compattissimi e poderosi, sono un gruppo da tenere d’occhio. I Big Business sono invece un duo che fa casino per dieci. Un bassista/cantante e un batterista, un groove inarrestabile e una presa immediata, come se i Melvins venissero centrifugati dai Lightning Bolt. Decisamente da tenere d’occhio! E infine, i Mastodon. Puntuali alle dieci e mezzo, i quattro di Atlanta attaccano subito con Thread Lightly, Once More ‘Round The Sun e Blasteroids: il suono è ottimo, la presenza scenica ruvida e hardcore. Le canzoni infatti si susseguono senza pause nè discorsi, giusto Troy Sanders prova ad interagire un minimo col pubblico. Possiamo notare una cosa: se Sanders, vocalmente, se la cava bene come sempre, Brent e Brann sono davvero migliorati. Finalmente l’alternanza vocale, dal vivo, funziona bene come su disco, e lo testimoniano ottime esecuzioni di brani come Oblivion, Divinations o Black Tongue. Gli estratti dall’ultimo album la fanno da padrone, ma è bello vedere come la scaletta nel suo insieme mostri un suono che si è evoluto rimanendo sempre coerente con sè stesso negli assunti di base. Acclamatissime Megalodon (con relativo pogo spaccaossa all’altezza dell’accelerazione centrale) e, ovviamente, Blood And Thunder col suo riff memorabile. Bello sentire il pubblico intonare “Hey ho, let’s fuckin’ go” durante Aunt Lisa, fantastica Ol’ Nessie con le sue atmosfere fra Neurosis e Lynyrd Skynyrd, e tanto di cappello per una mostruosa, intensissima Bladecatcher. Dopo un’ora e venti il concerto finisce e solo Brann Dailor si intrattiene un attimo a salutare e ringraziare. Un’ultima considerazione: il Fabrique era pieno a metà. Un mese prima i Machine Head hanno fatto appena ottocento spettatori. Gli Epica invece, nello stesso periodo, il tutto esaurito. E da giorni. Il metal che piace in Italia è quello epico/melodico/sinfonico. Tutto il resto si becca le briciole.
OBAKE – Mutations (2014)
Il primo album degli Obake aveva suscitato un notevole interesse grazie ad un sound fragoroso, sgraziato, assordante – estremo, in una parola, assemblando vari input provienti da vari generi (grind, sludge, hardcore, noise rock) senza rientrare in nessuno di essi. Il secondo album, Mutations, alza l’asticella e se da un lato presenta maggiore accessibilità con un cantato semi-orecchiabile (in Infinite Chain fa pensare all’odioso David Sylvian), dall’altro espande il raggio d’azione con una lugubre psichedelia ed una vena teatrale accentuata. Sembra di ascoltare, per certi versi, uno strano incrocio fra Nine Inch Nails e Tool passato attraverso i suoni catramosi e lo spirito beffardo dei Melvins. Le canzoni sono dinamiche, con momenti di calma apparente seguiti da esplosioni di groove sludge e salmodie infernali degne dei sacerdoti di qualche culto lovecraftiano. Da segnalare la presenza al basso di Colin Edwin, conosciuto già nei Porcupine Tree e qui parte integrante di un ingranaggio ritmico assordante e punitivo. Disco interessante e ricco di spunti, al di là dei generi. Tutti gli appassionati di suoni grezzi, di suggestioni inquietanti e atmofere fra il grottesco e l’horror dovrebbero dare una chance agli Obake.
STRIKER – City Of Gold (2014)
Fra i giovani gruppi dediti al più classico metallone, gli Striker sono uno dei nomi più celebrati. Il loro power metal tutto americano, discendente in linea diretta da Vicious Rumors e Riot (in particolare quelli con Tony Moore alla voce), ha la consistenza del granito e viaggia spesso e volentieri ad alta velocità. Squassante e senza fronzoli, City Of Gold è un disco che offre i suoi momenti più riusciti quando il metronomo sale: Underground, la title track, la micidiale All For One e Second Attack sono le bordate necessarie per ridare un po’ di linfa vitale al metal classico, dopo la dose quasi mortale di morfina inflittagli dagli ultimi Judas Priest. La voce di Dan Cleary, acuta e squillante, fa pensare ad un giovanissimo Bruce Dickinson, e canta con scioltezza melodie epiche quanto cattive. Un difetto? E’ presto detto, il suono, che casca nel comune errore del cosplay metallico. Una produzione un po’ vintage come questa finisce per smorzare il potenziale offensivo dei giovani canadesi, che però arrivano lo stesso a fine disco ancora in forze. E noi con loro. Bravi!